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Immagine del redattoreDoriana Bruccoleri

SE TI TAGLIASSERO LA TESTA… Storie di donne decapitatrici

L’icona macabra della testa mozzata maschile è stata per secoli tramandata da molti artisti che hanno consacrato le gesta di Giuditta, Salomé e Tomiri, le tre decapitatrici più famose della storia dell’arte. Tre archetipi di donna – l’eroina biblica, la danzatrice libidinosa, la madre vendicativa – proiezioni di un’ansia psicologica universale.


Notizie dal presente

Una scultura in bronzo di oltre due metri si trova oggi davanti la sede del tribunale della contea di New York. L’opera, rielaborazione di Luciano Garbati della statua cinquecentesca di Benvenuto Cellini, presenta Medusa che tiene tra le mani la testa mozzata di Perseo. Non solo un ribaltamento dell’iconografia tradizionale, ma anche una revisione del mito greco il quale caratterizza Medusa per il suo essere un mostro, e non per quello che effettivamente è: una vittima di stupro. Violentata da Poseidone e punita da Atena, Medusa ha subito quello che oggi ai nostri occhi è un caso di victim-blaming.


L.Garbati, Medusa con la testa di Perseo, 2008 - dettagli


Perché un soggetto del genere fronteggia il luogo della giustizia di New York? Perché è lì che si è svolto il processo ad Harvey Weinstein, prima testa caduta dal cui sangue è sorto il movimento #MeToo.


Seguendo le tracce del sangue meduseo, si può seguire un ideale percorso di riscatto a opera di figure femminili come Giuditta, Salomè e Tomiri che hanno fatto della testa maschile mozzata un ornamento trionfale che possiede un sottotesto psicologico destinato a essere ciclicamente ripetuto e riconfigurato.


Notizie dalla storia

Al taglio della testa corrisponde il taglio della Ragione e dell’identità. A volte la testa sopravvive al corpo, magari sapientemente utilizzata come vaso entro cui far crescere del superbo basilico. Altre volte è il corpo a sopravvivere alla testa, come nel caso dei delitti in cui l’identità dell’ucciso facilmente condurrebbe all’identità dell’uccisore.


Esiste un culto religioso, estetico ed erotico della testa nato dall’angoscioso fantasma collettivo della decollazione – reale o metaforica - che infesta la storia della civiltà.

Non solo in ambito culturale, le ansie psicologiche della decapitazione si sono concretizzate nella guerra politica che si è appropriata dell’ingegno del Dr. Guillottin in quella che è la pagina più oscura dell’Illuminismo: la stagione degli uomini che predicavano di usare la testa e che rimanevano sistematicamente senza. Un’immagine difficile da scordare, tanto che nella Francia postrivoluzionaria era di moda ornarsi il collo con un nastro di velluto rosso per simulare il taglio alla gola.



Dal momento che la decollazione appare come inconsciamente configurata nell’immaginario collettivo, è passata al vaglio della psiconalisi di Freud che afferma senza dubbio “Decapitazione = castrazione”.

Julia Kristeva, forse la più prolifica intellettuale francese, affronta il tema della decapitazione nel suo saggio-catalogo La testa senza il corpo prendendo in considerazione la storia dell’arte. Allontanandosi dal sessismo freudiano la Kristeva compie un viaggio molto femminile (e femminista) della psicanalisi nell'arte della decapitazione, dai crani del paleolitico superiore sino alle teste di Marilyn Monroe riprodotte da Andy Warhol.

«I nostri antenati - scrive la Kristeva - sembravano mirare alla testa delle donne... certamente più di una regina fu decapitata: Anna Bolena, Maria Stuarda, Maria Antonietta...Ma più ci si avvicina alle epoche moderne, più la decollazione riguarda gli uomini. Per la castrazione è d'obbligo: cosa si potrebbe tagliare a una donna?».

GIUDITTA, l’eroina

La città di Betulia in Giudea era assediata dagli Assiri: Giuditta, una vedova ricca, bella e virtuosa decide di recarsi presso il generale babilonese Oloferne che guidava l’attacco alla sua città. Si fece ricevere nella tenda del generale, e, fingendo di voler tradire la sua gente e di assecondare i desideri lussuriosi dell’uomo, ne approfitta per ucciderlo, tagliandogli la testa con la sua spada.

Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: «Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento». E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città. (Giuditta 13, 6-10)

La Giuditta dipinta da Artemisia Gentileschi nel 1620 è diventata un’icona del movimento femminista. Il dipinto, caratterizzato da un realismo caravaggesco, trae la sua energia espressiva nel suo essere al contempo una vendetta personale dell’artista e anche simbolo universale della lotta contro il potere fallico dell’uomo violentatore.


A.Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620

La volontà della Gentileschi nel ritrarre quel momento specifico della storia in modo così forte e cruento nasce dal suo desiderio di vendetta ed esorcizzazione dello stupro subito a 18 anni da parte da un amico del padre, il pittore Agostino Tassi. Attraverso la rappresentazione pittorica, Artemisia realizza una “castrazione” dell’universo maschile che trova la sua espressione più compiuta proprio nella figura di Giuditta.

Artemisia Gentileschi denuncia la violenza subita attraverso l’arte che, alla fine, le ha dato giustizia eterna.


Per una storia completa dell'iconografia di Giuditta leggi: Giuditta e Oloferne, variazioni sul tema



SALOMÈ, la danzatrice

La storia di Salomé fa capolineo solamente nelle pochissime righe dei Vangeli di Matteo (14, 3-11) e Marco (6, 17-28), che non la nominamo nemmeno, essendo lei semplicemente “la figlia di Erodiade”.

Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello. Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla!». Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodiade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. (Matteo 14, 3-11)

Il personaggio di Salomé, così battezzata dallo storico Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche (XVIII, 136), appare in tutte le rappresentazioni medievali della storia di Giovanni Battista poiché lei è lo strumento del martirio e quindi della santità dell’apostolo. Nel corso della storia Salomè si emanciperà quasi del tutto dalla stessa sua vicenda e di conseguenza dalla figura di Giovanni, acquisendo sempre maggior autonomia e protagonismo.



H.Regnault, Salomé, 1870

Da incosciente strumento di vendetta della madre, la figlia di Erodiade viene risucchiata in un caleidoscopio di proiezioni oniriche, desideri e reintrerpretazioni culturali che la faranno diventare simbolo della più devastante e morbosa lussuria.

Proprio per questa grande carica erotica e sanguinolenta, il personaggio di Salomé fu un soggetto prediletto dai simbolisti. Nel dipinto di Henri Regnault crolla pure il pretesto religioso della raffigurazione non essendoci la testa del Battista.


La seducente Salomè che si è impressa nell’immaginario collettivo è in realtà frutto esclusivo della visione maschile di artisti – come Caravaggio, Oscar Wilde, Richard Strauss – che hanno sfogato in lei i loro timori e ansie nei confronti delle donne.


TOMIRI, la regina

Su Tomiri, oggi poco presente nella cultura pop, hanno scritto molti storici e autori antichi, il primo dei quali fu Erodoto, e anche Dante la menziona nella prima cornice del Purgatorio, come esempio della punizione della superbia (con il nome di Tamiri: XII, 55: Sangue sitisti, ed io di sangue t’empio).

Ciro, re dei Persiani, attaccò i Massageti dopo aver chiesto invano la mano della loro regina Tomiri; sconfitto nel primo attacco, fu costretto alla ritirata. Con un inganno i Persiani riuscirono a catturare Spargapise, figlio di Tomiri e generale dell’esercito, che poco dopo si suicidò. La regina, disgustata dalla vigliacchieria di Ciro, lo sfidò in una battaglia vera, che i Persiani persero e in cui anche Ciro cadde ucciso. Tomiri cercò il suo cadavere sul campo di battaglia e una volta trovato, lo decapitò e ne immerse la testa in un bacile pieno di sangue dicendo: «Saziati del sangue di cui fosti assetato!». Per il resto della sua vita usò la testa del sovrano ucciso come coppa per il vino.

Rubens, La regina Tomiri immerge la testa di Ciro in un secchio di sangue, 1622-3

La figura Tomiri si trova in mezzo ai due estremi impersonati da Giuditta e Salomè.


Giuditta è un’eroina biblica che agisce attivamente mossa da un sentimento patriottico e religioso. Giuditta scuote il sessismo insito nella tradizione giudaico-cristiana, dimostrando che anche una donna può diventare strumento di redenzione e liberazione (se opera nel nome di Dio).


Salomè, invece, non agisce direttamente, ma ottiene la testa del Battista attraverso il potere di un uomo (Erode) per compiere una vendetta personale su ordinazione della madre offesa – come dice il vangelo – o per soddisfare la propria passione – come immagina Wilde.


Anche Tomiri non compie alcun atto in prima persona e la sua vendetta è mossa innanzitutto da un desiderio personale, che però non è nutrito da narcisimo. L’atrocità della sua storia viene in qualche modo giustificata dal sentimento materno che la fonda, l’esatto opposto della carica erotica data a Salomè che rimane per la società di oggi, uno scandalo inaccettabile.


G.Klimt, Giuditta I, 1901

Nel 1901 Gustav Klimt ritrae la sua amante Adele Bloch Bauer nei panni di Giuditta, in una rappresentazione a metà strada tra la mistica cristiana e i culti demoniaci.


L’artista non mette in scena nessuna storia: è la sola figura della donna a prevalere, ambigua incarnazione del binomio Eros-Thanatos, in tutto il suo aureo splendore. La testa di Oloferne, appena visibile in basso, non è più il centro di nessun interesse. Adele-Giuditta ha però al collo un pesante monile, come se fosse vittima condiscendente di quella che Eva Di Stefano definisce una «decapitazione da collana».


La matrioska dell’uomo-pittore che decapita la donna-decapitatrice, non si realizza come la chiusura di un cerchio, piuttosto come un punto qualsiasi di una spirale senza fine.




Le storie di Giuditta, Salomé e Tomiri sono solo tre momenti di una guerra millenaria che vede sia uomini che donne fatalmente attratti dalla decollazione, metaforica o letterale che sia. Nel cranio fissiamo la nostra identità estetica e pensante.


Immagine in copertina: "The Climax" di Aubrey Beardsley, 1893

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