Se non fosse esistita la Sicilia, non sarebbe esistita neanche l’Italia.
E da grande protagonista di storie e di Storia, il cinema, e l’arte tutta, non poteva che fare della Sicilia un set privilegiato senza eguali per poter ripercorrere e ricostruire il passato del Paese e capire meglio le sue dinamiche e la sua identità.
Giuseppe Garibaldi sbarca in Sicilia, a Marsala, nel 1860, ed è fra le note di un valzer che Luchino Visconti, grande protagonista del cinema italiano ed internazionale, con il film Il Gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, volle portare sul grande schermo questo cambiamento epocale per la storia italiana. Siamo di fronte a un valzer che sa di malinconico, nel suo sfarzo e nella sua opulenza, un valzer d’addio, consapevole dell'inevitabile declino del potere assoluto e assolutistico che l’aristocrazia deteneva all’epoca fra le mani.
Nel Gattopardo troviamo la metafora della perdita di questo privilegio della nobiltà nell’amore fra il nobile Tancredi Falconeri (interpretato da Alain Delon), nipote del principe Don Fabrizio di Salina, e Angelica Sedara, figlia di un borghese di umili origini arricchito grazie all’esperienza politica del neonato Regno d’Italia (interpretata da Claudia Cardinale). Un amore sbagliato, quasi proibito, figlio di due nemici in una lotta all’ultimo sangue per il privilegio più importante di tutti: quello del dominio. Duro a morire, struttura stessa di ogni società, che infatti cambierà vesti e forma. Nel film il sole, sempre alto e fermo, rappresenta una Sicilia che brucia, ma al tempo stesso è stagnante, bloccata in un orizzonte che sembra non riuscire ad andare oltre il mare che la circonda. Nelle sfarzose stanze imbandite per il ballo ci ritroviamo invece in un ambiente claustrofobico, nel quale non accade e non può accadere nulla, se non l’atto autocelebrativo della festa che sembra non avere fine, mentre fuori la Storia fa il suo corso. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, queste sono le parole cardine, pronunciate da Tancredi, che troviamo insite nella storia della Sicilia. Esprimono quel silenzio assordante di un divenire sempre sospeso.
Il Gattopardo è una storia sul potere, focalizzato dal punto di vista della passività, perché, come pensava Jean-Paul Sartre, anche il non-agire è una scelta che comporta delle conseguenze, così come l’agire. E le conseguenze di questa passività, radicata nell’anima della società siciliana da secoli e secoli, la ritroviamo sul grande schermo un secolo dopo.
Era il 1963 quando il film uscì nelle sale dei cinema, e l’Italia era diventata una repubblica già da diciassette anni e viveva in pieno gli anni del cosiddetto boom economico, ma, almeno in Sicilia, le cose non erano cambiate davvero così tanto. Il genio di Luchino Visconti, di cui è chiara l'impronta politica di matrice marxista,, voleva mostrare allo spettatore proprio questo: nuove dinamiche di potere sono emerse e si sono instaurate, nuovi dominanti tengono in pugno l’isola, e i suoi abitanti, i siciliani, dominati ancora una volta. Questa volta però non dall’aristocrazia latifondista, dai normanni, dagli arabi o dall’esercito sabaudo, ma da loro stessi: un nuovo nome entra a far parte nella cultura della Sicilia subito dopo l’unificazione: quello della Mafia.
Lo studioso delle tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè la definì come
“una visione della vita, di una regola di comportamento, di un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi dello Stato”.
Si apre con essa una nuova pagina della storia della Sicilia, una storia di sangue, di sopraffazione, di ingiustizia, che tanto segnerà la coscienza e l’avvenire di questa terra e dell’Italia intera. E siccome l’arte è lo specchio dei tempi che corrono, e della società, che ne indirizza il percorso, il fenomeno mafioso non poteva non essere trattato all’interno dello scenario artistico italiano.
Era invece il 1949 quando Pietro Germi fece uscire nelle sale In nome della legge, forse il primo film del cinema nostrano incentrato su una storia di mafia (il cinema statunitense, invece, lo anticipò già dal 1932, con l’iconico Scarface, regia di Howard Hawks, riguardante la figura del boss italo-americano Al Capone durante gli anni del proibizionismo). Spesso considerato fin troppo “accomodante” nei confronti della mafia, romanticizzata come se fossimo davanti a un gangster movie o un western americano, il film, girato a Sciacca, in provincia di Agrigento, aprì comunque la strada a quello che, successivamente, diventerà un vero e proprio genere.
Tredici anni dopo, nel 1962, il Parlamento italiano istituisce la Commissione antimafia. È il primo segnale di una classe politica che prende coscienza del fatto che uno Stato debole e assente è la causa principale dell’emergere di un potere criminale come quello della Mafia: autoritario, repressivo, ben strutturato e ramificato laddove la necessità fa da sfondo ad una realtà sociale, economica e culturale in profonda crisi.
Nello stesso anno, nelle sale cinematografiche esce quello che Sciascia considerò l’opera più vera che il cinema italiano abbia mai dato alla Sicilia: Salvatore Giuliano, del regista partenopeo Francesco Rosi.
Il film narra, attraverso numerosi flashback, le vicende criminali del bandito Salvatore Giuliano, stella del Movimento Indipendentista Siciliano, intrecciate con le vicende storiche dell'isola.
Giuliano veniva considerato dal popolo alla stregua di un novello Robin Hood, quasi una leggenda della lotta contro la sopraffazione dei potenti, e fu curioso notare come la prima reazione del pubblico alla visione dell'opera di Rosi fu di estrema perplessità, quasi di scetticismo. Nel film, infatti, le immagini ci mostrano un Giuliano colluso con i sopraffattori mafiosi, traditore della causa indipendentista e, cosa ancor più bruciante, un assassino della sua stessa gente: viene insomma sfatato un mito culturale ed ideologico che permaneva da tempo.
È interessante però, da un punto di visto socio-culturale, chiedersi il perché di quella reazione; perché i contadini siciliani storsero la bocca durante e dopo la visione del film di Rosi. Una scena emblematica può forse aiutarci a scrutare e comprendere gli animi di quegli spettatori amareggiati.
Un uomo, un anziano indipendentista, si affaccia su un orizzonte di aperta campagna e grida, appellandosi alla sua Terra, le seguenti commosse parole:
“Sicilia svegliati! Troppo hai adorato questo sonno vergognoso e in questo triste sogno tutto hai perduto, anche l’onore! Orsù tuonate forte le trombe, e tu non devi più dormire, perché dormir sarebbe morte! Rose... rose bianche di Sicilia, diventerete rosse col nostro sangue, ma i figli, e i figli dei figli, vivranno liberi in terra libera e potranno alzar la fronte al cielo e sorriderci all’avvenire.”
“Vivranno liberi in terra libera”: queste sono parole coscienti del fatto che non erano liberi, le donne e gli uomini siciliani; che non si poteva chiamare libertà la condizione di miseria e di abbandono in cui essi riversavano, seppur adesso formalmente cittadini di uno Stato democratico e moderno. Uno Stato che non rappresentava le richieste e i bisogni di un popolo stremato e indebolito. Siamo di fronte a un “Salvatore” di nome e di fatto, all’interno dell’immaginario dei siciliani, che intravidero in lui il liberatore da un sistema opprimente e senza speranze. Ma dei colpi di mitra ammutolirono quelle voci e quegli echi colmi di speranza che rivendicavano l’uguaglianza, il lavoro, l’alfabetizzazione, la giustizia.
Il 1947 fu infatti l’anno in cui si compì la strage di Portella della Ginestra, nel giorno del 1° maggio, festa dei lavoratori. La banda di Giuliano, in combutta coi mafiosi e i proprietari terrieri, repressero nel sangue un corteo di contadini in festa per l’esito delle elezioni citate sopra, rivendicando la redistribuzione delle campagne; di questi, 11 furono i morti e 27 i feriti. Il mandante non fu mai scoperto.
Quella fiamma, che ardeva nei cuori decisa come mai prima di allora, si spense col sangue. Le rose bianche di Sicilia si tinsero di rosso, sì, ma non salutarono al cielo di una futura libertà, da donare “ai figli e ai figli dei figli”, ma sempre allo stesso cielo che sembrava quasi una prigione dove non riuscire a volare.
Il film si conclude con due omicidi, quella del braccio destro di Giuliano, Gaspare Pisciotta, vendico di rivelare segreti inauditi e scandalosi per la nazione, e quella del potente mafioso che collaborò con i carabinieri e lo Stato per l’uccisione dell‘imprendibile bandito, protagonista invisibile. La collusione fra Stato, Mafia e il banditismo fu resa, così, vivida ed inequivocabile fra le sale dei piccoli cinema siciliani e, forse, a tale visione, i contadini siciliani storsero la bocca perché “dopo uno conosce le offese recate al mondo, l’empietà, la servitù, l’ingiustizia fra gli uomini” (Elio Vittorini).
Nel 1968 è tempo della trasposizione cinematografica de Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, opera del regista friulano Damiano Damiani. Già il romanzo dell'autore siciliano, pubblicato solo pochi anni prima e divenuto presto un bestseller, ci offre un affresco ancora più esplicito e radicale della collusione tra Stato e Mafia.
La Mafia dentro lo Stato: questo volle svelare Sciascia, con la sua opera, alla Sicilia e all’Italia degli anni Sessanta.
Il romanzo ci racconta di un delitto della mafia che questa vuol far passare per delitto passionale. Saranno le indagini del capitano dei Carabinieri Bellodi, a ricostruire le tracce di una vicenda che ci porterà dalle case rocciose di un piccolo comune siciliano fino a Roma, in Parlamento.
Sin dalle prime pagine ci viene presentato questo intrico malato: un deputato della Repubblica conversa al telefono con un funzionario ecclesiastico. L’argomento riguarda l’omicidio che muove tutta la storia, quello dell’incorruttibile appaltatore edile Colasberna, ucciso perché aveva rifiutato la protezione della mafia all’interno dei suoi affari; le intenzioni dei due potenti conversatori sono chiare: primo, sbarazzarsi di Bellodi, ritenuto scomodo per la sua pura devozione nei confronti della legge, “uno che vede la mafia da ogni parte”; e secondo, manipolare i fatti per far sì che la politica non possa emergere dallo sfondo dell’accaduto o, addirittura, rivelarsi come protagonista. “...Che il ministro possa rispondere che Colasberna è stato vittima di una questione di interesse o di corna” dice “sua eccellenza” all’altro capo della cornetta.
Nell'omonimo film, Damiani prende in prestito la figura della seducente Rosa Nicolosi (interpretata da Claudia Cardinale), che nel romanzo ricopre un ruolo minore e meno incidente, facendola diventare il vero capro espiatorio di questa manipolazione costruita ad arte: è lei infatti a venire accusata di essere l'amante di Colasberna, che nella versione artefatta viene uccisa dal marito di lei.
Troviamo ancora una volta un gruppo di potenti, di dominatori, che si scaglia contro un soggetto più debole, innocuo: è quello che Sciascia definisce come “un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese, una borghesia che sfrutta”. Un potere che in questo caso usufruisce dei propri privilegi di genere per sfruttare un soggetto appartenente a una categoria discriminata: la donna. E, soprattutto, i propri privilegi di classe: ne è un esempio l’assoldamento dell’utile idiota Zecchinetta come esecutore dell’omicidio, che accetta l’incarico per necessità economiche. “Noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo...”, così, nel romanzo, si esprime beffardo il capomafia Don Mariano Arena, anello di congiunzione tra la mafia del posto e lo Stato, oltreché mandante dell’omicidio Colasberna.
Emblematica è la scena del film, non presente nel libro, in cui Don Mariano entra, ben accolto, nella sede locale della Democrazia Cristiana, mentre il suo sguardo punta fisso agli occhi del capitano Bellodi, per avvertirlo e fargli intendere che ha amici potenti, in alto, nei luoghi decisionali e perciò può vincere facile; che non solo è protettore, lui, ma anche protetto.
Don Mariano è un personaggio che non ha mai paura, nella sua lirica saggezza, neanche quando le manette gli cerchieranno i polsi. Sa che non può essere sconfitto. “‘U capumafia avanza e trema comu li fogghi tutta la società”: questi, gli efficaci versi di una nota canzone popolare siciliana.
Don Mariano, difatti, ne uscirà vittorioso e così anche i suoi compari: la manipolazione architettata in stretta collaborazione con il Ministro, l’Onorevole e il Decano è riuscita; le prove imputate contro i mafiosi, scagionate da un banale alibi. Il Parlamento può riunirsi più sereno e continuare a far finta che la mafia non esiste.
Colui che ne esce irrimediabilmente sconfitto è il capitano Bellodi, che verrà sostituito da un altro, dallo sguardo più accomodante, che piace subito ai mafiosi mentre lo osservano dal loro binocolo. Nel libro, Bellodi, deluso dagli esiti della vicenda, resterà nella sua città, Parma. Il cuore, però, è rimasto in Sicilia, consapevole che, prima o poi, sarebbe tornato; che quella terra “incredibile”, “misteriosa, implacabile, vendicativa e bellissima”, forse, aveva più che mai bisogno di uomini come lui. Franco Nero, l’attore che ne interpreta il personaggio, lo descriverà come “un protagonista che perde. Ma sa perdere... e saper perdere vuol dire vincere”.
Tanti furono i film su vicende di mafia, e la loro presenza nelle sale è aumentata nel corso dei decenni in concomitanza all’acuirsi del fenomeno mafioso, divenuto sempre più potente e violento. Pensiamo a Ciascuno il suo (1967), regia di Elio Petri, tratto da un altro celebre romanzo di Leonardo Sciascia, con uno straordinario Gian Maria Volontè come attore protagonista, nei panni di un insegnante che indaga su un delitto d’onore, ritenendo sia per mano della mafia, per poi alla fine rimanere ingarbugliato in un giogo più grande di lui, un po’ come il capitano Bellodi. Altro importante esempio è il più recente I cento passi (2000), regia di Marco Tullio Giordana, incentrato sulla vita e l’omicidio del giovane attivista Peppino Impastato. Numerosa è anche la filmografia dedicata ai due emblematici giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati da Cosa Nostra nel 1992, le cui vite e morti svoltarono e lacerarono la storia del Paese. Fino a sbarcare ad Hollywood, con i suoi gangster movie sulla mafia italo-americana, raggiungendone l’apice col celeberrimo Il Padrino (1972), regia di Francis Ford Coppola.
La Sicilia fu sempre un set privilegiato per la storia del cinema italiano, sin dagli anni del muto. Non si può parlare di cinema in Sicilia senza citare il catanese Giovanni Grasso, le cui doti da grande attore, richiamarono anche l’attenzione internazionale. Feticcio del regista, anche lui catanese, Nino Martoglio, iniziò la sua carriera nell’ambito della forma d’arte tutta siciliana dell’Opera dei Pupi, per poi calcare i più importanti teatri d’Europa e arrivare a girare per i più grandi registi dell’epoca, divenendo un vero e proprio divo ante-litteram. Stesse sorti toccheranno al suo collega e concittadino Angelo Musco e alla trapanese Virginia Balistrieri. Quest’ultima, insieme a Grasso, recitò nel film di Martoglio Sperduti nel buio (1914), uno dei più importanti film del cinema nostrano, anticipatore del Neorealismo e addirittura del montaggio di contrasto ejzenstejniano.
La Sicilia, quindi, non soltanto set, ma anche fucina di talenti attoriali e registici: pensiamo agli iconici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, o ad Aldo Puglisi, lanciato sulla ribalta del cinema nostrano grazie al film, girato a Sciacca, Sedotta e abbandonata (1964), regia di Pietro Germi, per poi essere diretto da autentici mostri sacri, da Vittorio De Sica a Lucio Fulci, da Mario Monicelli a Lina Wertmuller. Di notevole rilievo è anche la nuova leva di registi siciliani, come Giuseppe Tornatore (Nuovo Cinema Paradiso, 1988, e Baarìa, 2009, entrambi girati e ambientati a Bagheria) e Luca Guadagnino (che porterà Tilda Swinton nell’isola di Pantelleria nel suo A Bigger Splash, 2015); fino ad arrivare agli sperimentalismi all’insegna dell’arte dei video dei palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco con la loro mitica Cinico TV.
Ciò che contraddistingue particolarmente le trame dei film ambientati in Sicilia è il loro essere tratte o ispirate da opere letterarie firmate dai più grandi autori siciliani. Grandi esempi sono Gelosia (1942), regia di Ferdinando Maria Poggioli, tratto dal romanzo di Luigi Capuana Il marchese di Roccaverdina; dalla penna di Vitaliano Brancati, i registi Luigi Zampa e Mauro Bolognini, fra gli altri, trasporranno in versione filmica rispettivamente Anni difficili (1948, girato a Modica) e Il bell’Antonio (1960, girato a Catania), quest’ultimo, intravisto in un’ottica di smitizzazione e decostruzione dell’ideale di virilità. Di Leonardo Sciascia, autore privilegiato grazie alla sua brillante capacità di mescolare la finzione con l’attualità e i suoi retroscena, verranno trasposti, oltre ai romanzi citati in precedenza, anche Cadaveri eccellenti e Todo Modo, entrambi del 1976, e diretti rispettivamente da Francesco Rosi ed Elio Petri. E ancora, Pietro Germi trarrà dal romanzo di Nino di Maria Cuore negli abissi il film Il cammino della speranza (1950), storia di una tormentata traversata lungo l’Italia di una famiglia agrigentina decisa ad emigrare in Francia per trovare lavoro; Alessandro Blasetti invece porterà nelle sale la commedia pirandelliana Liolà (1963). Ma questi non sono che pochi e rapidi esempi del connubio letteratura siciliana-cinema.
In conclusione, giova tornare a Luchino Visconti, il regista con cui abbiamo aperto questo breve excursus nel cinema in terra siciliana. E' la volta della trasposizione del celebre romanzo di Giovanni Verga, i Malavoglia, dal titolo La terra trema (1947). “La storia che il film racconta è la stessa che nel mondo si rinnova da anni in tutti quei paesi dove uomini sfruttano altri uomini”, queste sono le parole che scorrono nella scena d’apertura della pellicola.
Nella piccola città di Acitrezza la famiglia dei Valastro sopravvive da generazioni grazie alla pesca. La loro è una quotidiana lotta alla sopravvivenza; tutto ciò che possono permettersi è mangiare aringhe e pane. Il salario che ricavano i pescatori non sono che briciole, perché i grossisti ricavano la maggior parte dei profitti del loro lavoro. Il giovane ‘Ntoni decide un giorno di ribellarsi a questo sopruso perché “’u munnu ‘unn è bonu accussì”, il mondo non è buono così: riflette sul fondamentale lavoro svolto dai pescatori nel procurare la materia prima ai grossisti che, senza le loro braccia, non potrebbero continuare a trarre i loro vantaggi. Decide così, coinvolgendo tutta la sua famiglia, di mettersi in proprio, e usufruire interamente dei frutti del loro lavoro per poter condurre un’esistenza più dignitosa.
Il personaggio di ‘Ntoni vuole così portare un cambiamento nel piccolo paese in cui vive, un paese le cui strade e case diroccate sembrano urlare aiuto, rocciose testimoni dell’opprimente miseria e dell’ingiustizia a cui sono costretti i silenti ed inconsapevoli abitanti che le vivono; un paese dove non ci sono speranze né aspettative, dove il tempo sembra essersi fermato fra la polvere e i sassi. “A Trezza i domani non sono molto diversi dai giorni prima o da quelli che verranno”, ci dice una voce fuoricampo. Siamo di fronte a un immobilismo esistenziale, nel quale sembra non esserci via d’uscita.
‘Ntoni però comincia a riflettere sulla verità che la loro non è una condizione alla quale rassegnarsi perché insita nella natura, ma, invero, causata da un meccanismo divenuto sistema, basato sullo sfruttamento e su dinamiche di potere ben precise, e che per poterle rovesciare bisogna lottare.
Egli riuscirà in parte nelle sue intenzioni: smette di collaborare con i grossisti, venderà egli stesso ciò che ha pescato dal mare, causando di conseguenza perdite di guadagno ai vecchi padroni. Questi ultimi non rimarranno però impassibili: sono loro che dominano i rapporti di forza. ‘Ntoni infatti è solo, non è appoggiato quasi da nessuno, in quanto manca sia il coraggio che la consapevolezza, perché “ogni cosa fa paura quando si è in miseria”. Rimarrà infatti “vinto”, nel senso verghiano del termine, da questa sua lotta solitaria. Egli però non vuol seguire la strada del fratello, emigrato per cercare fortuna; comprende che per far sì che le cose cambino davvero bisogna restare, e lottare per la libertà e la dignità di tutti, non per un singolo individuo, possa egli essere il proprio fratello. Quel che gli manca è solo il sostegno di quei “tutti”, e questo lo porterà a perdere anche la sua battaglia di resistenza: da perfetto vinto, stremato dalla fame, dai debiti e dai drammi familiari, tornerà ad elemosinare un lavoro ai grossisti che, beffardi e attorniati da riferimenti fascisti, lo umilieranno e lo rincateneranno nella gabbia del sistema che essi incarnano.
La famiglia Valastro tornerà allora alla perenne e atemporale dimensione della loro miseria, alla loro condizione di dominati. Ad Acitrezza quella piccola e solitaria voce che rivendicava libertà e uguaglianza è stata soppressa, e anche chi in cuor suo sperava in quelle parole, adesso ritornava alla rassegnazione di una schiavitù senza scampo.
Nella scena finale del film, ‘Ntoni si trova a conversare con una bambina, simbolo della speranza nelle nuove generazioni, che, premurosa, gli offre il suo aiuto. Il giovane le risponderà così: “e come puoi aiutarmi tu? Quello che tutti dovrebbero fare, non fanno. Eppure dovrebbero capire che quello che ho fatto, l’ho fatto per tutti e non per me soltanto. Bisogna che impariamo a voler bene al prossimo, ad essere una cosa sola. Solo così le cose possono andare avanti”.
Quel che la Sicilia, attraverso la sua arte, ci vuol segnalare, è la necessità di un nuovo immaginario, cioè l’imparare a pensare in maniera radicale, alla radice, le premesse, le condizioni e i mezzi che la società ha accumulato e tramandato, per poterle ricostruire in modo diverso, per poter superare l’attuale stato delle cose. Come Elio Vittorini scriveva in Conversazione in Sicilia, e come Franco Battiato cantava in Aria di rivoluzione: servono nuovi doveri e nuovi valori.
A cura di Federica Villa
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