Così come nella sfera politica, economica o sociale, anche quella culturale è sempre stata pervasa dal patriarcato e dal maschilismo. Nel mondo dell’arte, le donne non erano altro che muse alle quali l’artista si ispirava: oggetto di ispirazione e di rappresentazione che era osservato, prodotto e riprodotto dal male gaze, una prospettiva interamente maschile e, nella maggior parte dei casi, anche religiosa e storica.
Nel suo famoso articolo del 1971 Why have there been no great women artists?, Linda Nochlin esplora gli ostacoli istituzionali che hanno impedito alle donne occidentali di aver successo nel mondo dell’arte. Un mondo in cui il punto di vista dell’uomo bianco occidentale era inconsciamente accettato come il punto di vista dello storico dell’arte. Se ci si riflette, infatti, durante i canonici percorsi scolastici di storia dell'arte non esistono praticamente riferimenti ad artiste donne. Nessun libro scolastico di storia dell’arte riporta nomi di artiste di alcun genere, solo grandi artisti come Giotto, Michelangelo, Picasso, Warhol, che hanno segnato la storia.
A tal riguardo, la critica femminista della storia dell’arte, iniziata tra la fine degli anni sessanta e gli degli anni settanta del secolo scorso, può identificare le limitazioni ideologiche e culturali per rilevare pregiudizi e inadeguatezze non solo riguardo la questione delle artiste donne, ma anche riguardo la formulazione e la conoscenza di questioni importanti della disciplina della storia dell’arte stessa. Una critica femminista ha, infatti, il potere di rivelare il grande fallimento della storia dell’arte e della storia in generale nel riconoscere il ruolo delle donne e di altri gruppi marginalizzati, nella Storia così come nella storia dell'arte.
La domanda “perché non ci sono state grandi artiste?” di Nochlin si riconduce a due condizioni storico-sociali:
Le istituzioni e le tendenze sociali hanno da sempre limitato e vietato alle donne l’accesso ad un’istruzione di natura artistica, plasmando il loro mondo ad una vita serviente e domestica;
Il professionalismo segue la storica convinzione che le donne non possano creare nulla di significativamente artistico. Lo stesso concetto di grandezza artistica e di genio è radicalmente maschile.
Ciò non significa però che le donne si trovavano solamente di fronte all'opera dell’artista, quando non direttamente dentro; alcune stavano anche dietro, alcune erano loro stesse le artiste. Almeno fino alla prima metà del ventesimo secolo, due erano gli stereotipi attribuiti alle donne che facevano arte: o erano semplicemente considerate come seguaci o allieve degli artisti uomini e quindi non riconosciute professionalmente o, se riconosciute come artiste, esse tendevano sempre a produrre un’arte decorativa, riproducendo oggetti futili e semplici, come fiori, natura morta, ritratti che non erano affatto considerati originali o nati da un genio artistico.
Come afferma Nochlin, la questione femminile non risiede tanto nella fisiologia delle donne quanto nelle istituzioni, nell’educazione e nelle convenzioni sociali che permeavano e ancora oggi permeano la società e le sue strutture. Difatti, il modo in cui la storia dell’arte è stata studiata e valutata non è figlio di una critica oggettiva e neutrale, bensì di una pratica ideologica che racchiude maschilismo, patriarcato e occidentalismo. Ignorare un’artista donna non significa soltanto non conoscere il suo nome. Questa ignoranza è sintomo di un'invisibilità che sorge da una profonda indifferenza della cultura e di tutto ciò che riguarda l’artista in sé.
Il ruolo dello storico dell’arte è fondamentale all’interno della disciplina stessa. Con il suo discorso eurocentrico, patriarcale e razzista, ad egli è attribuita la facoltà di scegliere chi e che cosa deve essere considerato degno di essere studiato, conservato ed esibito. La critica femminista ha risposto argomentando che la storia dell’arte, e di conseguenza lo storico dell’arte, “dovrebbe studiare la documentazione storica per tutto ciò che le voci di chi fa arte potrebbero raccontarci sulle storie, situazioni e prospettive della pluralità della condizione umana” (Pollock & Parker, 2013).
La critica femminista, queer, decoloniale della storia dell’arte rappresenta una sfida alle nozioni canonizzate della normatività bianca, maschile, eterosessuale e occidentale, che hanno avuto l’effetto di marginalizzare e ignorare i lavori di tutti coloro che non rispecchiavano tale normatività.
Inizia la protesta delle artiste donne
La fine degli anni sessanta fu un periodo pieno di proteste e ribellioni su strade affollate di persone che lottavano per i diritti civili, per le donne, e contro la guerra. Così, se da un lato la critica femminista della storia dell’arte inizia a ribellarsi contro un discorso patriarcale e maschilista, dall’altro le strade si riempiono di artiste donne che protestano per avere la loro identità e professionalità ben riconosciute.
Il movimento femminista nell’arte non era omogeneo: le disparità che vivevano le artiste bianche e di classe media non erano certamente le stesse delle artiste non-bianche o disabili, appartenenti alle classi più basse.
Non è nemmeno corretto affermare che tutte le artiste femministe dedicavano la loro arte alle stesse tematiche o utilizzavano tutte gli stessi mezzi. La seconda metà del ventesimo secolo fu infatti un’esplosione di mezzi artistici che andavano ben oltre agli standard della pittura e della scultura. Molte sperimentavano con le nuove tecnologie, creando video, installazioni, fotografie, altre sperimentavano con il loro corpo e la loro immagine, con la terra e i materiali naturali; altre ancora si trovarono a fare arte sui muri delle strade.
Donne e murales
Il movimento muralista inizia già durante gli anni trenta negli Stati Uniti e in Messico. Mentre Diego Rivera, David Alfaro e José Clemente Orozco erano conosciuti come Los Tres Grandes, tre dei più grandi muralisti della storia dell’arte, durante gli anni Sessanta si espandevano sempre di più dei movimenti femministi di muraliste. Donne e murales: che strana accoppiata!
Il mondo dei murales è un mondo urbano che è stato etichettato come prettamente maschile. Tuttavia, lo spazio urbano è stato visto da alcune artiste come uno dei mezzi principali per far arrivare il loro messaggio: le strade e i muri erano visibili a tutti, un mezzo democratico e autentico che parlava direttamente a tutte le persone. Attraverso la comunicazione visiva delle loro attività muraliste, molte donne di diversi background etnici insistevano su una collocazione più centrale delle donne e dei vari gruppi marginalizzati nelle narrative della storia dell’arte e dei murales. Il motivo per il quale i murales erano apprezzati risiedeva principalmente nell’identificazione dell’artista con il pubblico, un pubblico che non era certamente elitista.
Come affermano i muralisti Eva Cockcroft, John Pitman Weber e James Cockcroft:
I murales non sono soltanto proteste, non sono nemmeno grandi dipinti sui muri; piuttosto sono dipinti che sposano l’architettura, un’arte pubblica concepita in uno spazio preciso, un’arte che ruota intorno a un specifico contesto umano.
La scelta del muro e delle comunità circostanti era perciò una decisione molto importante per le muraliste.
Las Mujeres Muralistas era un collettivo di artiste del quartiere latino Mission District di San Francisco formatosi nei primi anni settanta. Patricia Rodriguez, Graciela Carrillo, Consuelo Mendez e Irene Perez sono riconosciute come le fondatrici e i membri più importanti del collettivo, ma bisogna ricordare anche altre artiste come Chicane, come Susan Cervantes, Ester Hernandez e Miriam Olivo, che si sono unite in seguito. I murales delle Las Mujeres Muralistas sono conosciuti per essere colorati e su larga scala e spesso si concentravano su temi come la femminilità, la cultura, la bellezza e la situazione socio-politica.
Un esempio è Para el Mercado (Paco’s Tacos): un murales commissionato dal proprietario di uno stand di taco la cui attività era minacciata dal suo nuovo competitore, il McDonald. Con i suoi colori vivaci e brillanti, i temi centrale del murales erano il cibo e il mercato latinoamericano. Uomini e donne sono protagonisti della caccia, della pesca e della preparazione di piatti tradizionali latini. Popoli del mondo antico e dei tempi moderni si vedono sparpagliati nelle scene del mercato, comprando e vendendo prodotti tradizionali fatti a mano.
The Women’s Mural: Bomboniere to Barbed Wire è un altro esempio di murale realizzato per un posto e una causa ben precisi. Situata presso Northcote, Melbourne, il murale è stato creato e dipinto da Megan Evans ed Eve Glenn nel 1986. Questa impresa mastodontica è stata completata dopo aver parlato e fotografato molte donne che vivevano nell'allora culturalmente diverso sobborgo di Northcote. Da queste consultazioni con le donne, le artiste hanno voluto creare un'opera d'arte che catturasse la vita quotidiana delle donne che vivevano, lavoravano e studiavano nella zona come contro risposta alla pubblicità sessista su larga scala che divenne prominente nelle strade negli anni ottanta.
Trent'anni dopo, nel febbraio del 2016, il murale è stato deturpato da un noto tagger, e questo atto ha creato un'ondata di proteste e commenti della comunità sul futuro del murale. A distanza di tre anni dopo, a causa di un rinnovamento del sito urbano, Bomboniere to Barbed Wire è stato modificato profondamente. La completa assenza del murale ha condotto alla creazione di Women's Mural Documentation Project, un progetto artistico di coinvolgimento della comunità che documenta la durata e il significato del murale per la comunità circostante.
Wall of Respect for Women, uno dei primi murales più conosciuti, è stato finanziato dalla città di New York e realizzato nella Lower East Side nel 1974, sotto la direzione dell’artista Tomie Arai. Così come Megan Evans ed Eve Glenn, anche Arai e il suo team di muraliste hanno coinvolto la comunità locale per la realizzazione del murale. L'opera è, infatti, un riconoscimento visivo delle donne e del loro ruolo nel Paese Americano. Alan W. Barnett ci spiega che questo muro:
"Mostra tra le radici e i rami di un grande albero i ruoli che le donne hanno svolto in questo paese, dal lavoro casalingo e dal cucito nelle fabbriche, al raccogliere mele per strada e picchettare, azionare interruttori collegi, presso la cima dell'albero, le giovani donne che stavano cercando una carriera professionale".
Le muraliste continuano a fare arte
Quelli furono anni in cui, attraverso il movimento muralista, le varie comunità utilizzavano la strada e i murales per rivendicare ciò che erano, ciò che avevano e ciò che doveva essere riconosciuto loro. I murales che ho riportato sono tre esempi di come questo tipo di arte e la loro narrativa di tipo sociale, politico ed economico, sia stata vista come un'arma attivista per un pubblico non elitario. Nonostante la loro breve durata, i murales diedero vita a battaglie e proteste che altrimenti sarebbero state invisibili. Attraverso la comunicazione visiva dei murales, le artiste ebbero la possibilità di raccontare le loro esperienze e di lottare pubblicamente, senza veli e senza finzioni.
L’azione delle donne muraliste non si interruppe negli anni Settanta o Ottanta. Ancora oggi, sono molte le artiste che scelgono i muri delle strade come tela per le loro opere e i loro racconti. Shamsia Hassani, Bambi Graffiti, Juanita Jaramillo Lavadie, Bastardilla, e Ola Volo sono solo alcuni dei nomi delle numerose artiste muraliste che dipingono i nostri muri raccontandoci la loro arte, e che vale sicuramente la pena conoscere.
Nonostante le lotte della critica e del movimento femminista nell’arte, viviamo ancora in un mondo in cui la presenza e l’effettivo riconoscimento delle artiste è nettamente minore rispetto a quello degli artiste. Ancora oggi, la presenza delle artiste donne nei libri scolastici di storia dell’arte è assente, e la presenza nei musei di opere appartenenti a donne è scandalosamente minore rispetto a quella degli uomini. E, ancora oggi, i murales sono ricondotti quasi sempre ad un corpo e ad una mano maschile. Ciò, però, non significa che le donne non facciano arte, anzi, i dati e le evidenze a nostra disposizione ci raccontano che essa non ha genere, sesso, nazione o religione. E' una materia libera di essere espressa, raccontata e riconosciuta senza seguire standard normativi che non fanno altro che limitarla e renderla, questa volta sì, realmente elitaria.
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