Artemisia Gentileschi ci dipinse la verità già nel XVII sec.
«In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario»
George Orwell
Aprire gli occhi alla verità, ciò sosteneva Orwell con questa frase, a volte però sapere la verità non basta, bisogna “agire”, questo è quello che chiedo io.
In questi giorni di ordinaria follia, ho sentito parlare dell’ennesimo caso di “violenza sulle donne”. Solo pochi mesi fa, a Novembre, l’istituzione nazionale di statistica (Istat), parlava di un report diffuso dalla polizia di “Questo non è amore”, con i dati aggiornati al 2019 sostenendo che ci sono 88 vittime al giorno, una donna ogni 15 minuti circa. La notizia shock è che se nel 2016 le statistiche parlavano di un 68% della società “femminile”, l’ultimo aggiornamento parla di un 71%, ben il 3 % in più, solo nell'arco di tre anni.
Questo fenomeno continua a divagare, solo nel mese di Aprile 2020 , sono state “1.039” le chiamate ai centri antiviolenza nel territorio nazionale, contro i “397” di Aprile 2019.
Sembra che la restrizione nelle mura domestiche stia causando un crescita statistica abnorme. Le violenze corrono quasi al pari passo con i contagi del Covid-19, dove si sta combattendo una guerra silenziosa, c’è anche una donna che non può alzare la voce.
Questa notizia non è che l’ennesima conferma di un macigno che la società si è sempre portata dietro. Situazioni di violenze carnali (stupri, torture, lesioni, ecc…), lasciano cicatrici anche nel mondo dell’arte, una storia che in tanti ignorano è quella di Artemisia Gentileschi.
Avete mai sentito parlare di Artemisia Gentileschi?
Artemisia fu una coraggiosa pittrice italiana del XVII secolo, che all'età di 18 anni venne stuprata. Suo padre Orazio, pittore dell’epoca e amico di Caravaggio, denunciò l’atto alle autorità, circa un anno dopo. L’autore del crimine in questione, fu Agostino Tassi, pittore e amico del padre, la ragazza era una sua allieva e forse confinata nelle mura domestiche di Orazio, non riuscì a svincolarsi dallo stupro. Quando l’accaduto venne denunciato, Artemisia non fu considerata vittima ma una “poco di buono”.
Il processo fu lungo e doloroso, una situazione surreale dove per costatare la verità del fattaccio, la pittrice venne torturata dalla Sibilla: le sue mani vennero strette a delle corde e tirate, mentre delle viti a testa piatta le schiacciavano le dita causando delle feriti molto gravi. Quella pratica poteva causarle delle conseguenze permanenti, per fortuna non fu così e la sua arte rimase sublime.
In questo processo vi è una figura indegna, Tuzia, che fu presente al crimine, ma nonostante ciò fece di tutto per confutare la faccenda e testimoniare contro Artemisia. L’onore della vittima fu messo in discussione, a suo carico vi furono delle accuse spinose, quali: l’incesto con il padre, le relazioni con molteplici amanti e una condotta scorretta (tutto ciò fu approvato da Tuzia).
Il caso non ebbe né vinti e né vincitori, Tassi venne condannato a otto mesi per I seguenti crimini: furto, debiti, sodomia, incesto con la cognata e di essere il mandatario del tentato omicidio della moglie, riuscita a scappare miracolosamente.
Artemisia si dovette allontanare dalla sua città nativa, Roma, e per porre fine alle “dicerie”, si sposò con un pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, dalla quale ebbe sei figli.
La pittrice si trasferì a Firenze, dove ebbe un grande successo professionale, infatti fu la prima donna ad entrare all'accademia delle arti di disegno, ebbe delle trattative lavorative con Cosimo II de' Medici e fu amica di Galileo Galilei.
I soggetti della sua pittura sembrano, per certi versi, riportare le dinamiche vissute, ad esempio nella sua opera Giuditta che decapita Oloferne (1620) si scorge una “vendetta” silenziosa che fa rumore nei suoi picchi di luce multi-cromatica.
La storia di Artemisia, seppur lontana quattro secoli, sembra lo specchio di una lotta che non siamo ancora riusciti a placare. Le mura domestiche diventano una prigione, il criminale spesso dorme al fianco della vittima e una società “cieca” continua ad ignorare tutto questo.
A portarla in giudizio è proprio un italiano su quattro!
Il 25 Novembre, giorno internazionale contro la violenza sulle donne, il corriere della sera riportava questo titolo: Violenza sulle donne, il sondaggio Istat: «Per il 24% degli italiani è colpa del vestito».
La realtà del coronavirus ci ha privato di questa “scusa”?
Nell'attuale quotidianità casalinga, una donna non necessità di un vestiario “eccentrico”, spesso si ritrova con una classica tuta o comunque qualcosa di comodo addosso, la voglia di “agghindarsi” non è di certo una priorità. Se nell'aprile che è appena trascorso, abbiamo un notevole picco di denunce, ciò dimostra che “l’abito non fa il monaco”, con questa semplice metafora possiamo capire che l’unica azione da rimproverare non sta all'immagine della vittima, ma alle sfaccettature oltraggiose dell’artefice.
Mi chiedo se si può alzare il dito per un crimine, senza vestirci nei panni della vittima.
Il giudizio è stato da sempre un indole umana, anche nei testi biblici ritroviamo questa frase: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Vangelo di Giovanni: 8,3).
In una società democratica dove i diritti e doveri sono in egual modo “riconosciuti”, non possiamo non vedere; rimanere ad osservare non fa di noi meno autori di un crimine. Per ogni donna violata nell'animo, c’è un cittadino che non ferma questa ingiustizia; mentre I diritti sono oscurati, I doveri vengono dimenticati.
La società che giudicò Artemisia come “donna da facili costumi” non è più colpevole di quell'italiano su quattro che giudica il “vestito” della vittima.
Se nella storia della pittrice troviamo una tortura carnale come prova di verità, nella realtà di oggi le torture hanno una nuova declinazione (queste vengono oscurate in questa società perché coccolarci con le parole sembra essere un buon mezzo comunicativo).
Porto ad esempio come si valuta una situazione di stupro oggi, l’anamnesi ed esame obbiettivo è su per giù questa:
- Tipo di lesioni subite (in particolare a carico della bocca, mammelle, vagina e retto)
- Qualunque sanguinamento da abrasioni o lesioni (per aiutare a valutare il rischio di trasmissione di HIV ed epatiti)
- Descrizione dell'aggressione (quali orifizi sono stati penetrati, se l'eiaculazione è avvenuta o è stato usato un profilattico)
- Tipo di aggressione (uso di minacce, armi, comportamento violento)
- Descrizione dell'aggressore
Un “donna X” deve provare le sue parole privandosi ulteriormente del suo corpo diventando, oltremodo, un’incognita da scrutare senza mettere in discussione l’animo.
Se la mente viene tutelata da un supporto psichico, l’anima rimane lesa.
Come nella storia di Artemisia, le cicatrici che permangono non sono che ferite di guerra da mostrare, la pittrice trovò la forza di andare avanti cullandosi tra le braccia di un pennello ed evocando una vendetta celata, ma fortemente riconosciuta.
La donna X oggi è come Artemisia, non solo una celebre pittrice/donna/madre, ma anche una vittima, quello che potremmo essere tutti, perché le ingiustizie non hanno sesso, non hanno età e spesso neanche identità.
A cura di Nathalie Rallo.
Immagine in copertina: A.Gentileschi, "Lucrezia", 1640 ca.
Comments