Alzo lo sguardo, respiro. Chiudo gli occhi, mi appoggio, inclino leggermente la testa all’indietro e mi lascio baciare teneramente da questo sole primaverile. Si tratta di un bacio che protegge, non si conclude rapidamente, non si scioglie, indugia, impiega il tempo necessario. Tengo ancora le palpebre abbassate e continuo a respirare. Intorno a me profumo di fiori appena schiusi che non oso riconoscere e un cinguettio che non distinguo ma che si trasforma presto in armonioso volteggio di ali. Lascio scorrere lo sguardo che si posa sulle facciate illuminate, su altre più scrostate, su una casa disabitata che ha ancora le tende, ormai ingiallite, alle finestre. Il pizzo si intreccia fino a formare un disegno di rose, ora grandi ora piccole. Magari la camera da letto, chissà. Mi muovo riordinando le poche parole che userò. In questo momento, sarebbe bene organizzarle e saperle impiegare con gentilezza. Ci provo, ma ogni tanto inciampo. Le metto da parte, la giornata è ancora lunga. Voglio farmi abbracciare dall’azzurro primaverile che oggi ha riempito il cielo. Sono sul balcone della mia piccola, silenziosa città che questa mattina, come tutte le ultime quaranta mattine, è impegnata a rifare i letti, lavare le imposte, spolverare i mobili, preparare il pranzo. Mi appoggio alla ringhiera e sorrido riempendo i polmoni delle storie lontane che sento arrivare da un appartamento vicino. Non distinguo i discorsi ma profumano di attenzioni reciproche e noce moscata. Con il naso all’insù, mentre rincorro il valzer di una rondine, penso alla città che ho lasciato. Ho letto degli articoli, visto delle foto e seguito dei video, sembra che stia riposando. Quando ieri ho visto la prima foto, non sembrava neanche lei! Io che l’avevo vissuta sempre trafficata, indaffarata, rumorosa. Io che l’avevo vista sempre indossare un sorriso anche nei giorni di pioggia, anche nei giorni più difficili, adesso eccola qua. Palermo che era sempre stata un coro mai interrotto dalle mille voci, dallo sbattere degli zoccoli dei cavalli sull’asfalto sempre in fiamme, adesso taceva. Che strano. Allora mi è venuta in mente una storia… Da molto tempo esiste su questo nostro meraviglioso, pazzo mondo, una città che sta sul mare. Solenne e maestosa è anche magica e cela un segreto: la città è una donna bellissima che non voleva invecchiare mai, così un giorno creò una pozione, ma sbagliò qualcosa, allora si trasformò in città. Libera, così si chiamava, aveva lunghi capelli lisci dorati, i monti le cingevano stretti i fianchi, il Kemonia e il Papireto le bagnavano le labbra e gli occhi erano blu intenso come il cielo e il mare. Libera era una città così bella che non poteva non essere amata. E il suo destino fu proprio questo, essere amata. Moltissimi la amarono. Primi arrivarono i Fenici, che non sapendo dire Libera la chiamarono Zyz. Libera, o Zyz, non sapeva ancora parlare, così i Fenici le fecero il dono delle parole. I Fenici amavano Libera e lei si lasciava placidamente amare: dava loro i frutti della sua terra e loro sacrificavano per lei i capretti del loro pascolo. Lei li accoglieva nelle acque di quel mare cristallino e loro le portavano sempre nuovi gioielli. Ma si sparse presto la voce della meravigliosa Libera. I popoli vicini curiosi di vederla e desiderosi di possederla, iniziarono a susseguirsi. Così iniziarono le guerre e poi venne la pace e si sparse del sangue e molti uomini videro e conobbero Libera. Un uomo in particolare la amò, ma di lui nulla si sa, se non che aveva una barba lunga, le braccia forti a cui si avvinghiavano serpenti, il corpo vigoroso e il volto di vecchio. Per Libera il Genio combatté valorosamente, capì che sempre avrebbe dovuto combattere e che probabilmente l’avrebbe persa, quindi, per mezzo di una magia si trasformò e si smembrò in tante parti di Libera stesso, tant’è che ancora adesso si trova dritto e imponente in Piazza Rivoluzione, immerso nel verde di Villa Giulia si aggira tra le nicchie e ogni tanto guarda il mare di fronte. Compare nel disegno di un arazzo nel bel mezzo della città e tutto controlla e protegge. Arrivarono gli Arabi, ma anche loro non sapevano dire Libera, vedendo che le sue bellezze erano molte ad ognuna di loro diedero un nome ed altre ancora ne portarono. Divisero la città in quartieri, le diedero da bere, portarono i datteri e le diedero da mangiare. Arrivarono i Normanni, che ancora non sapevano dire Libera, e costruirono castelli e palazzi e arrivarono donne nuove, dai visi lunghi e magri che vennero baciate per la prima volta dal caldo sole d’agosto che scaldava il cuore della città, le quali fecero costruire magnifici castelli vicini al porto. Arrivarono gli spagnoli che costruirono grandi palazzi, portarono sigilli dorati, quadri con le facce di re lontani e portarono feste e vestiti da ballo e aprirono le porte di ville governate da signore dalle collane importanti. Si costruirono mercati e si organizzarono fiere e venne commerciato pesce, vennero commerciate le mele e vennero commerciate le carni. Nei mercati Libera si vedeva più chiaramente: il sorriso malizioso, gli occhi come spilli, la voce chiara, alta e fiera che si mescolava alle altre e le abbracciava. Libera era nel mercato, tra i tanti avventori che ogni giorno lo assaltavano e si aggirava sicura, ancheggiante, di facciata in facciata, di vicolo in vicolo. Libera era una città amata, contesa, ambita, sognata. Chi la vedeva ne rimaneva rapito, assorto, come vittima di un incantesimo da cui non poteva essere sciolto. Libera è una donna bellissima che non aveva bisogno di incipriarsi il naso o di ritoccare il trucco sugli occhi, Libera è una fiera, dalla bellezza bruciate e brutale, che non poteva essere ignorata. Libera è una donna selvaggia e indomita che trae bellezza e nutrimento dalla sua ostinazione. Il destino di Libera era quello di essere sempre contesa e sempre lotte e sangue vide e sempre uomini caduti accolse per sempre tra le sue braccia. Così, in quell’ondeggiare calmo e agitato che è il tempo, Libera visse e tante genti conobbe e con tanti popoli parlò e con tanti uomini andò a dormire. Ascoltava indifferente le promesse di chi le giurava sempre nuovi e più preziosi regali. Vide uomini dedicarle inni e costruire in suo onore moschee e chiese e moschee che diventarono chiese, e teatri e musei e piazze dalle nudità rivelate. Libera vide anche un tempo più sanguinoso degli altri, un tempo buio che le tagliò i fianchi e le spezzò il cuore, un tempo serrato e minaccioso in cui gli uomini lacerate le avevano le membra e insanguinato il ventre. Questo fu un tempo oscuro e pieno di silenzio e di orrore e di lacrime che la città non vuole più ricordare ma non riesce a dimenticare e che non può ignorare guardando l’immagine riflessa delle cicatrici che ne hanno minacciato la bellezza. Ma Libera è una città forte, e anche questa volta sopravvisse. Poi andò nel mare: pescò i suoi figli, pianse per quelli che non riuscì a salvare. Andò ancora nel mare e ci rimase, come una madre pronta ad accogliere il frutto errante di altre città: e li salvò e li porto a casa, e imparò ancora nuovi balli e nuovi canti e profumò le strade di nuovi cibi e dipinse le facciate delle case di nuovi colori, costruì nuove fontane e quelli la chiamarono con un nome simile: Libertà. Ora che Libera è vuota non ha l’aspetto che ha sempre avuto, sembra dolente: le strade sono sgombre, i teatri vuoti, i mercati silenziosi. Verrebbe da dire: “ecco, siamo a Libera, la città che è stata liberata”. Adesso la città respira e riposa: mostra fiera le sue colonne barocche, i suoi capitelli corinzi, le chiese romaniche e le absidi che sono come scrigni, e una chiesa d’oro e gli affreschi custoditi e divorati dall’ombra, le guglie normanne e gli archi arabi, le cupole azzurre e quelle rosse, le gallerie che testimoniano una vittoria ormai passata, palazzi medievali all’interno dei quali trionfa la morte ma si celebra la vita. Libera si muove silenziosa, saluta i Mori dalle braccia mozzate a Porta Nuova, scende lungo il corso e costeggia le barche nel mare, controlla che tutti siano al sicuro: Libera è in realtà la città che custodisce la sua Libertà. Ma non di solo barocco è fatta Libera, né di ville grandi dai lampadari sfavillanti sotto i quali si davano sfarzose feste da ballo. Non solo di alti palazzi borghesi e grattacieli dal pinnacolo rosso, e teatri e leoni che ti accolgono sulla porta dei teatri. C’è soprattutto la vita e la strada da cui si anima la vita. È così che la città splende. A cura di Maria Moscato.
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