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Briganti

Aveva nove anni quando iniziò a lavorare per la prima volta. Un ambiente ostico per un bambino, un lavoro troppo pericoloso per chiunque, figurarsi a nove anni. Eppure lui era lì, pronto ad aiutare la sua famiglia in un momento storico in cui in una stanza vivevano nove persone e il figlio più grande non poteva permettersi un'infanzia.

Non si lamentava, imitava il padre “petto in fuori e testa alta, con le scarpe rotte, non importa” si ripeteva ogni mattina durante quel tragitto tortuoso e lungo che da casa lo portava lì, in quel posto tremendo che faceva paura al più grosso degli uomini.

Poi si spogliava, lo sguardo basso di chi si imbarazza non per gli uomini nudi, ma per il padre, in un momento storico in cui il pudore in famiglia non era mai troppo.

Poi scendeva giù, sempre più giù, in fondo, qualche centimetro prima dell'inferno.

Luigi aveva solo nove anni, per il lavoro si chiamava Gaspare -il nome di un suo parente lontano-, lavorava nudo nella miniera di zolfo del suo paese, portava solo uno strofinaccio sporco e un piccone, raschiava tutta la giornata e tossiva. Guardarsi attorno era una tortura: quelle persone sudate e sporche avevano meno soldi che fiato, ed era tutto dire dato dove si trovavano, ma emanavano dignità e a nove anni la dignità era un successo che Luigi voleva conquistarsi, quindi non si fermava, lavorava e lavorava sotto gli occhi attenti e vigili degli amici del padre.

La miniera era piena di lunghi e bui corridoi, senza aria né sogni. Entrava dentro speranzoso ogni giorno, come se da qualche piccola buca potesse uscire qualcuno che gli stravolgesse la vita. Era pur sempre un bambino e immaginare era la sua via di fuga, un modo più carino per vivere l'incubo quotidiano di quell'infinito viaggio. Ogni giorno doveva sfidare l'alba, vestirsi, stringere le stringhe e correre con papà per superare briganti, animali e mal tempo. Una continua lotta.

Eppure Luigi si divertiva, intorno a lui altri bambini, pochi o troppi era difficile dirlo perché all'inferno tutti lavoravano nella stessa maniera, ma si trovava sempre il tempo per ridere, per scherzare, per cantare allegramente facendo dispetto alla morte che bisogna sempre ricordarsi essere dietro l'angolo, tra un respiro al sapore di zolfo e un fuoco scoppiettante sotto la terra. Poi sentiva la sirena e sapeva che per quella giornata tutto era finito, che anche quel giorno sarebbe tornato a casa, un po' tracotante con Dio “anche oggi te l'ho fatta” diceva appena messo a letto, con la sfacciataggine dell'età immatura e la stanchezza di un corpo minuto.

Quella mattina sua madre lo svegliò urlando

-LUIGI! LUIGI!- era tardi e Luigi aveva sonno, freddo e stava male, ma doveva alzarsi, papà era pronto.

-Dai Luigi, andiamo. Copriti.- gli mise la sua giacca sopra a quella che già aveva e uscirono fuori. Faceva decisamente freddo e il piccolo guardava con orgoglio il padre: indossava solo un maglione rattoppato e nonostante l'aria tagliente si privò del giaccone per lui. Gli occhi di Luigi brillarono pieni di orgoglio e lacrime, sorrise all'idea di essere così stupidamente sensibile anche se, di nascosto da tutti, ne andava fiero. Quella mattina però il sorriso durò meno del solito.

Stavano camminando insieme ad un amico del padre e il figlio, un suo caro amico che lavorava nel suo stesso corridoio ad un cubicolo di distanza, quando ad un tratto sentirono dei rumori. I padri in allerta e i bambini spaventati. In un losco movimento Rosario venne spinto a terra, Luigi tremò e urlò mentre i due uomini erano trattenuti da due dei tre bestioni che li stavano assalendo. Si alzò un vento freddo intorno a loro, le foglie dei grandi alberi frusciavano imperterrite e tutto si lasciava trasportare dall'aria fredda di quella triste mattina.

-Le scarpe.

-No!

-Togliti le scarpe!

-No!

Luigi voleva sul serio intervenire ma non ci riusciva. La spavalderia che lo accompagnava a lavoro, quando doveva scontrarsi con nemici astratti fatti di molecole che poteva solo ispirare, scomparve di fronte ad un nemico vero, ad un mostro in carne ed ossa dalla quale non riusciva a scappare neanche il padre, figurarsi lui, con la pancia vuota e le ossa infreddolite. La scena lo segnò per sempre. Quelle scarpe nuove, comprate dopo anni di sacrifici e stenti, quelle suole appena sporche, quei colori sgargianti di cui Rosario solo poco prima si vantava, adesso erano sporche di sangue. Rosario adesso era sporco di sangue. L'urlo disperato del padre impotente gli travolse i timpani e il cuore, i briganti ferirono gli adulti e uccisero il piccolo possessore di quel bene appena ricevuto e scapparono veloci con l'anima macchiata per sempre, solo per un misero paio di scarpe, “ho lavorato un anno per queste scarpe, non abbiamo dovuto barattare nessuna pagnotta, papà ha detto che me li sono meritati, che sono l'uomo di casa!” gli risuonava ancora in testa l'orgoglio di quelle parole, gli risuonava in testa ancora la risata del padre che probabilmente non avrebbe mai più riso. E in quella mattina ventosa nessuno sarebbe mai più stato uguale. Si tolse le scarpe e le mise ai piedi del suo amico. Gli baciò la fronte e alzò gli occhi al cielo verso un Dio troppo lontano da loro, da quegli eventi, dalla morte e dall'inferno in cui ogni giorno era rinchiuso. Rosario fu portato a casa dal padre distrutto, consapevole che a lavoro avrebbe avuto problemi ma troppo disperato per credere che quell'episodio potesse sul serio contare più del lavoro. Luigi e suo padre continuarono a camminare. Terrorizzati.

-Paolo che è successo? Perché così in ritardo?

-Rosario, il figlio di Antonio, è stato ammazzato.

-Ma come?

-Briganti.- silenzio.

-Per un paio di scarpe.- fu solo un sussurro ma quanta rabbia conteneva. Luigi aveva ancora gli occhi bassi a guardarsi i piedi sporchi e infreddoliti, graffiati qua e là e tremava, i pugni chiusi e le unghie conficcate nel palmo fino a sanguinare.

-È tutta una grande merda.- dissero.

Ci fu un lungo momento di silenzio. Tutti a capo chino. Chiunque perso in pensieri pericolosi, chiunque consapevole che al posto di quel bambino poteva esserci lui, o suo figlio, o un parente, chiunque. E il dolore era troppo.

Poi però la sirena suonò e dovettero entrare.

Quel giorno scendere con l'ascensore non fu la stessa cosa, Luigi ora era l'unico bambino, nessuno aveva con lui voglia di immaginare, di vedere dietro quel sasso laggiù, al buio, chissà quale strano essere.

Da quel giorno neanche lui ebbe più voglia di immaginare, da quel giorno qualsiasi essere si trasformò nell'odore stagnante della morte.

Nel suo cubicolo c'era più silenzio del solito. Il battere concitato del piccone sulla roccia, oggi era frenetico.

Certe esperienze cambiano gli uomini. Ad un bambino cosa sono in grado di fare?

-Luì calma, calma.

-Luigi!!!

-Sì, sì. Mi calmo.

-Non è colpa tua.

-Lo so.

Non era neanche colpa di Rosario eppure oggi il cubicolo di Rosario era vuoto.

Lavorò incessantemente quella giornata, non vide nemmeno gli uomini nudi che tanto lo imbarazzavano, non percepì il rude odore dello zolfo né lo sporco di quelle gallerie. Non arrivò a casa con spavalderia ma con le lacrime agli occhi abbracciò sua madre, poi i suoi fratelli e ringraziò per il cibo caldo che ,anche se poco, in ogni caso lo stava mangiando, ne sentiva il profumo, ne assaggiava il sapore, ne godeva insieme alla sua famiglia. E quando si mise a letto si permise di piangere.




A cura di Ilenia Rinoldo

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