(Un vangelo moderno)
«Chi mi darà ali come di colomba,
per volare e trovare riposo?
Ecco, errando, fuggirei lontano,
abiterei nel deserto.
Riposerei in un luogo di riparo
dalla furia del vento e dell'uragano».
Salmo 55
Questa è la vera storia di Jazz, il pugile, o almeno la versione che preferisco. Il suo soprannome era “Il Tornado Canadese”, ed era nato nella periferia di Montreal. Suo padre era un creolo di New Orleans, dove suonava il trombone ogni mercoledì al Sweet Lorraine’s Club. Sua madre era una cattolica lituana, arrivata in Canada con due mele congelate ed una bandana piena di soldi del monopoli. Non perdonò mai completamente il marito per aver negato al figlio un nome cristiano. Aveva iniziato a combattere molto presto, per difendersi da chi lo prendeva in giro per le orecchie a sventola ed un evidente difetto di pronuncia.
In uno dei suoi primi incontri, quando aveva appena diciassette anni, venne notato da un osservatore americano. L’uomo si chiamava Joe Mantegna, e si trovava lì perché l’avversario di Jazz era primo cugino di un suo amico, che era andato a trovare dopo molti anni. Da allora vinse numerosi incontri importanti ma, pur essendo un peso massimo talentuoso, non riuscì mai a vincere il titolo mondiale. Il titolo mondiale era quello della federazione americana, nella quale aveva combattuto fin dagli inizi della sua carriera professionistica, poco più che ventenne. Ben presto il pubblico si affezionò a questo campione di poche parole, lontano dalle eccentricità degli atleti professionisti, salvo che per l’abitudine di festeggiare ogni vittoria sorseggiando champagne della migliore qualità, prima sul ring e poi per le strade.
Pur avendo collezionato molte vittorie, la possibilità di battersi per il titolo mondiale gli fu data soltanto due volte. La prima volta aveva ventisei anni, ventidue incontri vinti (diciannove per KO), un pareggio, e tre sconfitte. A quel tempo i canadesi non erano ben visti a sud del confine, e così il Tornado, pur essendo sempre stato una persona corretta dentro e fuori dal ring, venne fischiato. Il campione in carica era Zig Zagug, detto Cazzo d’Acciaio per un infortunio mai confermato, e lo sarebbe rimasto per otto anni. Zig non era molto alto per la sua categoria di peso; un metro e ottanta per cento kg di muscoli, braccia lunghe e robuste, petto largo. Non molto veloce, ma instancabile e con un gancio capace di atterrare un cavallo.
Il primo match tra i due rimase nella storia. Dopo quattro round dominati da Jazz, durante la pausa il suo nuovo manager, un cinese di nome Pong ma conosciuto come Tropical per via delle sue camicie hawaiane, gli passò una bevanda dicendogli si trattasse di un nuovo energizzante arrivato dall’Europa. “Coraggio!” gli aveva detto il manager “Stai andando alla grande, ormai è fatta”. Il mondo della boxe a quei tempi era veramente corrotto, e l’unico campione più scomodo di un campione canadese sarebbe stato un campione canadese onesto. Quella bevanda conteneva mescalina, un potentissimo allucinogeno che inizia ad agire sul sistema nervoso dopo pochi secondi dall’assunzione.
A Zig bastarono due pugni.
Jazz, avendo ingerito una quantità spropositata di quella sostanza, finì mezzo morto in rianimazione. Immediatamente fu chiaro a tutti che non erano stati i colpi micidiali di Cazzo d’Acciaio a ridurlo così. Si diffusero delle voci, maldestramente negate dalla federazione, che qualcuno avesse truccato l’incontro. La stampa cercò di rintracciare Pong, ma senza successo. Una settimana dopo, mentre il Tornado lottava ancora contro la morte in terapia intensiva, Pong fu trovato in un motel dove si era trasferito dopo il divorzio. Overdose di cocaina. A trovarlo era stata la cognata, che era andata a cercarlo per conto della sorella. Era convinta che Tropical avesse incassato una bella cifra per l’incontro, e voleva una fetta di quei soldi per il bene di sua sorella e dei numerosi nipoti. Jazz ci mise due anni a riprendersi del tutto. Si allenò giorno e notte, e infine tornò a combattere.
Nel frattempo, i contrasti tra Stati Uniti e Canada si erano placati. Dopo alcuni incontri vinti, seppur contro avversari di secondo livello, al Tornado venne data la possibilità di lottare una seconda volta per il titolo. Al manager di Zig sembrava un’occasione perfetta: il Tornado non era più quello di una volta, e Cazzo d’Acciaio sarebbe stato certamente in grado di difendere con facilità la sua cintura, far dimenticare l’incontro truccato, e guadagnare una bella fetta degli incassi. L’incontro venne promosso come “La rivincita del decennio”. Questa volta però era Jazz quello amato dal pubblico. Sebbene mai confermata, la storia della mescalina aveva fatto il giro del mondo, e moltissimi canadesi in avevano iniziato ad interessarsi al pugilato, ispirati dal loro campione a cui era stato rubato il titolo. Il giorno del combattimento, il Mandalay Bay Casino di Las Vegas era gremito di quebecchesi. Avevano attraversato il continente per applaudire il loro eroe; indossavano magliette biancoazzure, i colori del loro stato. Era il dodici gennaio, e Jazz avrebbe compiuto trentatré anni in un mese. La tensione era alle stelle, tutti speravano in un miracolo, di vedere la cintura alzata dal vecchio Tornado, tornato al centro del ring. I quebbechesi erano tutti in silenzio, ammutoliti dal timore scaramantico di portare sfortuna al Tornado. Perfino l’usuale arroganza degli americani sembrava attutita quella sera. Zig Zagug era talmente sicuro di vincere che salì sul ring con un grosso sigaro fumante in bocca.
Aveva ragione; dopo appena due round, Zig stese Jazz con un montante, e mantenne la sua cintura. Il Tornado era invecchiato.
Una settimana dopo il Tornado annunciò il suo ritiro. Tornò a vivere a Montreal, si sposò con Marie, ed ebbe altri due figli. Con i soldi dell’incontro aprì una piccola enoteca, dove gli capitava spesso di intrattenersi oltre l’orario di chiusura con i clienti, ricordando il passato quasi senza malinconia. Ogni tanto beveva un bicchiere di champagne con il suo vecchio amico Pong, che dopo il tentato suicidio aveva lasciato il mondo della boxe, e si era sposato con la cognata per un misto di gratitudine e solitudine. Rifiutò sempre ogni offerta di tornare vicino ad un ring, come allenatore, manager, o anche semplicemente come ospite ad eventi e commemorazioni.
Un giorno di agosto di molti anni dopo, mentre era in vacanza con la sua famiglia, fece un’eccezione. Per fare contento il figlio maggiore andò a guardare un incontro di pugilato della CBF Boxing, principale federazione professionistica del Canada. Alla fine dello show, il Chairman, un piccolo ebreo che non smetteva di ripetere quanto fosse stato un fun del Tornado ai tempi in cui era un lottatore, propose a Jazz di combattere un’ultima volta. L’incontro si sarebbe tenuto in sei mesi. L’idea era quella di mettere su un combattimento simbolico, facendo lottare il più grande pugile canadese degli ultimi vent’anni, ormai vecchio, contro il giovane Gabriel Benoit, campione imbattuto. Una sorta di passaggio di consegne che avrebbe fatto impazzire il pubblico. Il match sarebbe dovuto durare sei round, e finire in un pareggio. Dopo l’incontro, i due campioni si sarebbero dovuti abbracciare, e il vecchio pugile avrebbe dovuto dire al pubblico che, questa volta, un canadese sarebbe riuscito a conquistare gli Stati Uniti.
Due giorni dopo arrivò la lettera.
Benoit non credeva ai suoi occhi. “Ti consiglio di combattere seriamente, perché io non ho intenzione di scherzare. Ti strapperò il cazzo, te lo infilerò nel culo, e poi berrò dello champagne.” Il biglietto non era firmato, ma l’espressione di Jazz prima di salire sul ring non lasciava dubbi. Fu quel giorno che il Tornado vinse, dopo undici riprese, con il volto sanguinante e il cuore che quasi scoppiava, per KO, contro il campione canadese. In tutti quegli anni, non aveva mai smesso di allenarsi. E non aveva nessuna intenzione di combattere un match finto, in cui gli fosse stato detto cosa fare e come muoversi, come un ballerino.
Una cosa però la fece. Dopo l’incontro abbracciò Benoit, e gridò al pubblico che, questa volta, un canadese ce l’avrebbe fatta. Il Tornado avrebbe provato, per la terza volta, a vincere il titolo mondiale. Quello fu il suo ultimo incontro. Due giorni dopo, Marie lo trovò morto sulla sua poltrona preferita, sorridente. Emorragia celebrale, accelerata dai colpi dell’ultima battaglia. Al suo funerale, Beniot non menzionò la lettera, ma l’onore di avere combattuto e perso contro una leggenda. Tre mesi dopo, perse ai punti l’incontro con il campione americano, e si ritirò dal pugilato rilevando un albergo sul mare in Costa Rica, stanco del clima del Quebec e delle voci insistenti sulla sua omosessualità. Marie continuò a gestire l’enoteca, e ad intrattenere i pellegrini venuti per dello champagne e per respirare la leggenda del Tornado. Non raccontò mai a nessuno della notte in cui aveva scritto quella lettera.
Kommentare