Arriva una certa ora della notte in cui, tutte quante le luci dentro di ogni casa, una dopo l'altra, cominciano a spegnersi. Le osservo, nel frattempo che me ne sto affacciato fuori dalla finestra di camera mia, coi gomiti poggiati sul cornicione che, tutto impolverato, mi sporca ogniqualvolta l'indumento che ho addosso. C'è anche, allato a me, su di questo marmo, un piccolo vaso di plastica color verde acqua, scolorito dalle stagioni che, insieme agli anni, passano, all'interno del quale, sei o sette mesi addietro, crescevano dei lattescenti fiori di gelsomino. Di certo adesso non c'è più la benché minima traccia di quel profumo primaverile che li caratterizza e avvicinare il naso a ciò che è rimasto di quel minuscolo paradiso ornamentale non riporta alla mente alcuna passeggiata all'aperto, né alcun primo bacio. Perché nulla è rimasto a parte il recipiente che, adesso, ahimè, è un posacenere traboccante di sigarette finite e soffocate con forza. Sono le cinque passate del mattino. La gente, a quest'ora tarda, già da un bel pezzo è immersa nei loro sogni. Eppure c'è qualcuno, là, dall'altra parte del Mugnone e del viale adorno di lunghi alberi spogli che, come me, non ha ancora spento la luce.
Ora che ci penso, non credo di averla mai vista spegnersi, quella luce. La finestra è la terzultima a sinistra, al quarto piano del palazzone che dista un centinaio di metri dal mio. Magari ci vive uno scrittore, ho pensato. Dalla tenue intensità di quel bagliore che da qui riesco a vedere, posso dedurre che non può che trattarsi di una abat-jour. Dipinge gli interni, minuscoli ai miei occhi, di una sfumatura scura di giallo, piuttosto ambrato e squallido. Una cosa è certa, chiunque esso sia, che stia scrivendo un libro oppure no, come il sottoscritto non riesce a prendere sonno. Può darsi abbia solo paura del buio, mi è venuto da pensare. È probabile. In questo caso la luce rimane accesa e quel cristiano si addormenta come un bambino. Ha senso. Nel frattempo altri venti minuti sono passati e tra un po' il cielo si farà blu. Chiuderò le serrande e lascerò che l'omino dell'appartamento male illuminato, là, di fronte, al quarto piano, si aggiudichi il primo premio per la veglia più lunga di questo lunedì, tanto umido quanto disperato. Ho deciso di non tener conto dei miei sospetti, che sono infondati, sulla presunta acluofobia del mio rivale, poiché, se così non facessi, certamente la gara dovrebbe essere annullata in attesa di un sopraluogo che verifichi il fatto. Le zanzare, nel frattempo, approfittano delle mie lunghe seghe mentali alla finestra per potersi così addentrare in camera mia e succhiare, al più presto, quanto più sangue possibile da ogni parte di carne lasciata scoperta dai miei vestiti.
A quante sigarette sono? Con questa siamo a sedici oggi, diciassette al massimo. Ho freddo alle orecchie ora e sarebbe bene rientrare, se non fosse che altri futili spunti di riflessione prendono il sopravvento nella mia mente stanca. La prima domanda che faccio a me stesso è la seguente. Se non esiste modo di riuscire a prender sonno, a parte quando, dai buchi delle tapparelle chiuse inizia ad entrar luce, mi chiedo, non sia mai che proprio io ho paura dell'oscurità? La notte mi piace oppure no? E se è durante le ore del giorno che, per di più, prendo a riposare, sarà perché la luce del sole non mi entusiasma poi così tanto, sbaglio? O sarà che mi spaventata meno? Sarà. Dopotutto sto fissando gli occhi in direzione dell'unico spiraglio di luce che, a quest'ora, si riesce ancora a vedere, mentre il resto del quartiere è macchiato da varie sfumature di nero. La luna, diciamocelo, non è poi così brava ad illuminare le cose. Magari è solo angoscia, la mia. Di certo è così. Pesa sul torace, questa angoscia. Tutte le volte che giro le spalle alla bellezza. Sia questa la luce del sole o la pelle che brucia, gli uccelli fermi sui fili della corrente, le nuvole – quanto mi piacciono le nuvole! – le formiche, le foglie secche, i passeggini, i colori delle scarpe della gente. Sembrano illusioni. Mi sento ormai tirato fuori da tutto ciò che riguarda il mondo di chi si sveglia la mattina. Non lo frequento da parecchio tempo, quel posto, e dovrò farci il callo. Sono una creatura delle tenebre, io. Imparerò il pipistrellese, diventerò amico delle puttane qua sotto, dichiarerò guerra alle zanzare e spierò per sempre i miei vicini. Questo farò.
Un minuto alle sei. Il giallume dell'abat-jour si riesce ancora a vedere. Eppure non c'ho mai visto nessuno oltre quel rettangolo poco illuminato. Per quel che ne so, chiunque domicilia in quell'appartamento potrebbe anche essere partito settimane fa, sparito, dimenticandosi di spegnere l'interruttore della lampada. Chissà i numeri sulla bolletta del mese di Aprile, allora. Sapete cosa? Dovrei chiedergli di dividere le spese, se così fosse. Perché è più utile a me che a lui, quella luce. Alle volte mi sento così solo che mi affaccio per guardarla. È bello sapere che c'è. Mi tiene compagnia e spero che nessuno possa mai spegnerla. Uno sbadiglio. È il momento di mettersi a letto. Buonanotte, amico mio, dall'altra parte del Mugnone. O forse è più corretto dirci buongiorno. Ci sono sveglie che trilleranno da qui a qualche minuto. Spero che piova.
Piccola nota: ho letto che i fiori di gelsomino migliorano la qualità del sonno.
Un racconto di Goborno Costanza.
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