3 agosto 1916: una donna aspetta in solitudine l’arrivo di un treno presso l’afosa stazione di Panicaglia, paese del basso Mugello, in Toscana. Le poche persone che la scorgono non possono fare a meno di notare il suo aspetto, la sua bellezza e la sua eleganza. La solitaria viaggiatrice si chiama Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio, detta "Rina". E’ famosa da circa un decennio per il suo romanzo Una Donna, uno dei primi libri femministi apparsi in Italia, pubblicato nel 1906 ed acclamato in suolo nazionale e internazionale. Sibilla appare schiva, ma non lo è.
In realtà sarebbe lieta di parlare di sé e del suo libro con i curiosi osservatori della stazione. Di solito lo fa con orgoglio, proprio perché con lo stesso coraggio e la stessa fierezza aveva descritto, nel 1902, la sua terribile vicenda: stuprata a quindici anni, era rimasta incinta perdendo il figlio durante il parto. Poi, secondo il costume dell’epoca, fu costretta a sposare il suo aguzzino, da cui ebbe un figlio. Un figlio che amò smisuratamente e a cui dedicò alcuni anni della sua vita, ma che successivamente lasciò, con dolore straziante, per non convivere con il coniuge violento che la maltrattava. Sperò di ottenere poi l’affidamento, ma le leggi di allora non erano favorevoli nei confronti delle donne liberali e il Tribunale di Roma decise che il bambino doveva restare con il padre. Sibilla, con la disperazione nel cuore, lasciò il bambino al padre con la speranza di vivere, almeno, una vita diversa e nuova da donna libera.
Sibilla Aleramo fotografata da Mario Nunes Vais. Fonte: Collezione del Fondo Nunes Vais
Quel giorno Sibilla avrebbe incontrato per la prima volta Dino Campana, poeta ancora ignoto, destinato a diventare una delle figure più emblematiche e “maledette” del Novecento italiano, ma che in quel momento si limitava a cercare disperatamente di vendere il suo libro, i Canti Orfici, pubblicato nel 1914 a Marradi, paese natio del poeta.
La lettura di quei versi misteriosi e notturni aveva incuriosito molto la scrittrice: nel giugno del ’16 invia la prima epistola al poeta fiorentino, che non tarda a rispondergli. Le poche lettere che Campana le aveva scritto, così suggestive, fitte di riferimenti letterari e di citazioni in lingue straniere, avevano affascinato la scrittrice, al punto di sognare di conoscerlo. Sibilla aveva sentito parlare molto di lui nell’ambiente letterario fiorentino. La sua fama non era delle migliori: lo descrivevano come un solitario, uno squattrinato dall’aspetto non curato che spesso veniva paragonato ad un clochard. Eppure, del suo libro discutevano tutti. Sibilla non è turbata da questa descrizione, anche lei si sente un po’ vagabonda: è stata a Parigi, in Provenza, in Corsica. Nulla di troppo avventuroso, ma comunque insolito per una donna sola del tempo.
Sebbene sia corretto affermare che entrambi siano dei viaggiatori, la vita di Campana è ben lontana da quella mondana dell’Aleramo. L’intera esistenza del poeta fu pervasa dalla problematica della malattia mentale. Nato a pochi chilometri da Firenze, a Marradi, paese fra i monti al confine fra la Toscana e la Romagna, fin dall’adolescenza Campana manifesta chiari segni di squilibrio mentale e la sua vita diventa un continuo girovagare per manicomi. A soli ventun anni viene ricoverato per la prima volta nel manicomio di Imola, ricevendo la diagnosi di demenza precoce. La nevrosi della madre, combinata all’incomprensione da parte dei familiari e dell’angusto ambiente di paese in cui vive (era diventato “el mat” della comunità), peggioreranno negli anni la situazione. Campana ideò, dunque, il proprio personale metodo di guarigione: il viaggio.
Girerà molto, in Europa e in Argentina, facendo i mestieri più disparati per mantenersi: pianista in locali e bordelli, arrotino e il pompiere. I suoi viaggi avevano oramai preso la strada del vagabondaggio esasperato, e molte di queste fughe avranno risvolti drammatici e saranno intervallate da numerosi arresti e ricoveri.
Di Campana si possiedono rarissimi reperti fotografici. Per decenni ne è circolato prevalentemente uno, consistente in un particolare di una foto di classe risalente al liceo, ma recentemente si è scoperto che il giovane lì ritratto era un altro studente marradese.
Ognuna di queste disavventure aveva lasciato delle esperienze profonde nell’animo dello “scrittore notturno” e aveva contribuito alla maturazione del suo capolavoro letterario, che prese forma alla fine del 1913. Campana era un uomo enigmatico, guardato con morbosa curiosità e con sospetto. L’ambiente letterario fiorentino lo teneva a debita distanza, e la diffidenza che intuisce negli altri rafforza inesorabilmente il suo senso di disadattamento. Si sente stretto all’interno del perimetro di quell’ambiente con cui è obbligato a mantenere legami e, allo stesso tempo, è offeso per il disinteresse che il suo lavoro letterario riceve. Degno di nota è l’evento memorabile della perdita del manoscritto Il più lungo giorno, titolo originario dei Canti Orfici, per mano di Ardengo Soffici, l’intellettuale toscano a cui aveva affidato la lettura dell’unica copia dei versi. Lo smarrimento dell’autografo incrementò il senso di persecuzione del poeta e gli costò uno sforzo disumano per la ricostruzione, a memoria, dei versi originari.
Il più lungo giorno venne ritrovato quasi sessant’anni dopo in casa di Soffici, in occasione di un trasloco.
Delle vicissitudini più oscure del poeta, Sibilla conosce bene poco. Anche Campana non sa molto della sua vita, ma aveva sentito parlare di lei, invece, per le chiacchiere sulle sue ripetute storie d’amore. L’appuntamento si realizza come previsto e l’amore esplode, deflagra proprio come le bombe della prima guerra mondiale che stanno devastando l’Europa in quegli anni.
“T’ho veduto staccato da tutti, libero come nessuno, e più umano ancora di me, oh Dino, ch’ero così sola a portar tutta la mia umanità. Ma più forte di me, anche. Più alto. So quel che dico. Che ti potrò dare? T’adoro” scrive Sibilla al poeta il 7 agosto, di ritorno da delle giornate intense, trascorse tra la natura delle campagne del Mugello in solitudine con il suo nuovo amante.
Agosto e settembre sono intervallati da numerosi ricongiungimenti fisici. All’inizio è un sogno, un magnifico idillio. La fiamma s’accende fin dal giorno del loro primo incontro illuminando di pura e nuova passione le loro vite. L’estate del 1916 è il periodo più felice per la coppia affamata d’amore e il carteggio testimonia un sentimento fortissimo, intenso e pieno d’affetto da parte d’entrambi: “Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò… Sei tu che mi sconquassi così? Che cosa mi hai messo nelle vene?”.
E ancora:
“[…] ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tienimi, io non ti lascio, bruceremo”.
Qualcosa però spezza presto l’idillio: la nevrastenia di Dino torna prepotente ad impadronirsi di lui. Sibilla non conosceva la portata e il faticoso coinvolgimento che questi episodi determinavano. “Come sapete ho la testa vuota. Piena del vento iemale che empie questa valle d’inferno” le scrive Dino in quel periodo.
Sibilla non vuole lasciare solo al suo destino l’amato e, come testimonia una lettera inviata all’amico critico letterario Emilio Cecchi, invocherà fin da subito aiuti esterni : “C. è malato profondamente, neurastenia con mania continua di fuga, di annientamento. E’ atroce quel che la vita può su un uomo…”. E ancora: “Bisogna che senta altri cuori oltre al mio, che lo voglion vivo. So che avete per lui, oltre all’ammirazione, una vera simpatia. Aiutiamoci.”
Eppure l’inferno aveva avuto inizio. Il carattere elettrico del poeta, unito alla gelosia che provava nei confronti della donna e dei suoi passati amanti, peggiorano la situazione. Campana sperimenta un’ira incontenibile, ampliata dalla paura dell’abbandono. Arrivò ad aggredire verbalmente e fisicamente Sibilla, che provò l’angoscia di chi subisce la furia di una mente sconvolta. Lei aveva già avuto a che fare con l’instabilità della madre, che dopo un tentato suicidio era stata internata in un manicomio dal quale non era più uscita. L’uomo che amava così profondamente doveva subire la stessa sorte? Decise, dunque, di lottare, di comprenderlo, di cercare una strada per salvarlo e per salvare la loro relazione.
“C. è partito. Volevo partir io, dopo una serie di giorni e notti in cui ho ascoltato le cose più atroci, subito le cose più atroci. […] Eppure è amore, è dolore, una cosa orrida e meravigliosa. Vedere nel suo cuore, ho meritato questo dono spaventoso. Che accadrà ora?”, scrive il 25 ottobre 1916 ad Emilio Cecchi.
La scrittrice deve combattere contro una grande paura. Nessuno le aveva messo le mano addosso dopo l’abbandono della casa coniugale. Allora fuggiva, però, da un marito violento, un uomo gretto e ignorante, mentre Dino è diverso. Dino è un genio, è un poeta e lei lo ama e il suo amore è ricambiato. Non ha dubbi, Sibilla: vuole aiutare Dino a combattere contro se stesso.
Le lettere relative a quel periodo testimoniano una grandissima forza di volontà da parte della donna:
“Ci amiamo, perché non vogliamo vivere? […] Stretti siamo una cosa miracolosa. Dobbiamo vincere. Rientriamo insieme nella vita. Che ci vedano, belli, non soltanto nella nostra poesia, che ci amino per la nostra gioia, per la nostra vittoria”.
Sibilla lo implora di rientrare insieme nella vita, ma i deliri di Dino non trovano più requie. La donna si rivolge continuamente a diverse persone, scrive spesso alla madre di Dino, che lo definisce “un benedetto figliolo che bene non può stare, ai nostri occhi fa il possibile per star male e fare stare male i suoi”.
Per ricevere degli aiuti concreti decide, infine, che occorre farlo visitare da una specialista, che gli consiglia un ricovero immediato. Dino, che di ricoveri se ne intende, prende “il partito dei deboli”, come lo definisce all’interno delle lettere, e cerca una personale cura, ancora una volta, nel viaggio. Alla fine del gennaio del 1917, Campana si recherà in Piemonte.
La storia di Dino e Sibilla assume da questo momento in poi delle pieghe sempre più drammatiche. Il carteggio testimonia un forte disagio, angoscia e incertezza da entrambe le parti.
Emblematica e forte testimonianza del dolore della poetessa e dell’atroce comportamento dell’amante sono i versi che la donna invierà a Dino alla fine del 1916:
Rose calpestava nel suo delirio
E il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!
Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo su la fronte che adorava.
Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male.
La poesia apre uno scenario sconvolgente sulle atrocità cui ella era stata sottoposta. Una poesia che “lascia intravedere uno scorcio di vita ‘maudit’ tra i più autentici”, scrisse Mario Luzi in una celebre prefazione al carteggio.
Sibilla ha ormai deciso di distaccarsi completamente dall’amato. Non si tratta di un abbandono repentino, ma della presa di coscienza di una situazione non più sostenibile. Si era sempre prodigata per salvare l’amato, aveva elemosinato aiuti economici, visite mediche e favori, ma lentamente si era convinta di non poter far più nulla per il compagno. Ama ancora, lo dichiara apertamente nelle lettere a lui e ad amici, e la sua sincerità e il suo rimpianto sono lampanti ed evidenti.
Il 21 dicembre 1916, scrive alla comune amica Leonetta Cecchi Pieraccioni:
“Leonetta, non so se vedrai Campana. Dopo averlo ritrovato, e con lui qualcuna delle nostre ore più belle, stanotte s’è di nuovo abbandonato al suo delirio d’odio e questa volta credo non ci ritroveremo più […] Non avevo mai impegnata così totalmente la mia esistenza: era adorazione, sottomissione, negazione mia totale. Ora non saprò mai più amare. Sibilla”
Spaventata, ma soprattutto avvilita e intimamente ferita, Aleramo non volle più incontrare Campana, malgrado la successione insistita, appassionata e a tratti straziante dei messaggi di lui, nei quali invocava perdono e chiedeva almeno un ultimo incontro. Il 12 gennaio del 1918 il poeta viene ricoverato nel manicomio di San Salvi a Firenze, per poi essere trasferito nel cronicario di Castel Pulci. Il certificato afferma che è affetto da alienazione mentale. Qui, quel “viaggio chiamato amore” termina. Campana morirà l’1 marzo 1932, a quarantasette anni. Sibilla non si farà mai viva durante tutti quegli anni. La sua proverbiale fiducia nella vita e in sé stessa la spinse ad andare avanti: un anno dopo s’innamorerà di nuovo. Invecchierà molto tardi, scriverà ancora, prima di morire il 13 gennaio 1960.
Per lunghissimi anni la Aleramo aveva conservato il carteggio che testimoniava la sua tormentata esperienza sentimentale con Campana. Era sempre pronta a parlare di sé, eppure la scrittrice non raccontò mai la sua storia con Dino in nessuna delle sue opere letterarie. Ne affidò la memoria alle lettere che acconsentì a far pubblicare solamente nel 1958, due anni prima di morire. Dopo essere stata incoraggiata dal compagno di allora, lo scrittore Franco Matacotta, decise di donare al pubblico la testimonianza più intima e dolorosa di una relazione di tale portata. Le lettere che ci rimangono rappresentano l’unica dichiarazione di questo struggente romanzo consumato tragicamente tra due protagonisti dalla personalità complessa ed estremamente sensibile.
L’amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana durò una sola estate, quella del 1916 (aldilà che le lettere comprendano un periodo maggiore che va dal 1916 al 1918), ma fu devastante per le vite di entrambi. Fu un amore frutto di attrazione intellettuale e fisica e che sfociò in litigi furibondi, in continue fughe, in versi poetici e lettere strazianti. Un viaggio che testimonia amore e passione, ma contemporaneamente estremo dolore, cibo di cui i poeti sono abituati a nutrirsi.
Le citazioni sono tratte dal carteggio Sibilla Aleramo – Dino Campana, Un viaggio chiamato amore, Lettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti, Feltrinelli, 2000.
A cura di Laura Patti
E' molto bello! Grazie! Chissà se mai avremo occasione di leggere carteggi simili. Oggi mi sembra tutto così diverso e così simile ad un'impresa commerciale anche la letteratura.