Il nero in Lovecraft, tra minaccia e ignoto. Cos’è il colore per il maestro dell'horror?
È fuor di dubbio che il colore, nella letteratura e negli studi critici che esso ispira, ha sempre ricoperto un ruolo importante e dalle molteplici valenze, come in tutte le altre forme d’arte: non solo come qualità dei costrutti che tinge, ma più spesso come chiave di lettura di connotazioni e significati secondari che si intrecciano su più livelli. Il colore ha il potere di tramutarsi in parola chiave della narrazione ed è tanto più efficace quanto più l’autore e i suoi destinatari sono vicini nel tempo, nello spazio e nella società, dato che in ognuna di queste dimensioni l’evoluzione degli aggettivi cromatici si muove parallelamente, pur lasciando sempre traccia di sé.
Nella letteratura horror il colore ha sempre avuto il ruolo di dispositivo di creazione del pathos, specialmente il rosso e nero - strettamente legato ai concetti di vita, sangue e violenza il primo e di confinamento, ignoto e minaccia, il secondo. Le aberrazioni che abitano la maggior parte delle storie del genere si ammantano volentieri dei suddetti colori, tanto per il pregio che essi conferiscono quanto per i richiami agli oggetti terreni e vitali che è loro intenzione sottrarre ai personaggi umani.
Questo tipo di studio dei significati sottesi a un significante (una parola o una famiglia di parole) si chiama semantica, disciplina che nella letteratura oltre a indagare ed esplicitare i significati, si occupa anche di ricostruirne i percorsi evolutivi attraverso gli utilizzi giustapposti o contrapposti nei testi – le tracce di cui prima.
Lovecraft: viaggio nell'abisso del colore
Un esempio singolare di utilizzo del colore nell’horror si trova tra le opere che nei primi decenni del Novecento hanno riccamente popolato il panorama narrativo occidentale per mano di Howard P. Lovecraft, i cui racconti horror tendono ad allontanare il lettore da una presa chiara delle aberrazioni che li popolano, travolgendolo con una cosmogonia lugubre, imperscrutabile e incontrollabile.
"The Colour out of Space": il nero e l'indescrivibile colore alieno
In The Colour out of Space (1927), il racconto di una entità aliena dal colore indescrivibile che infetta e avvelena tanto la piccola fattoria che infesta quanto la famiglia che lì abita, il nero spicca subito come caratteristica del maligno. Fin dall'inizio, nelle “yawning black maw of an abandoned well“ e accompagna in vari momenti della vicenda, colorando ”the black roots“ degli alberi morenti e arrivando fino ai reami extra-cosmici da cui proviene il colore indefinibile che condanna Nahum e la sua famiglia.
Invece, il ruolo tipicamente svolto dal rosso che denota violenza e minaccia, qui viene assunto dal fantomatico e alieno colore indescrivibile: questo racconto di Lovecraft, infatti, si satura del colore extraterrestre ed indescrivibile che è poi il motore della trama e della follia cui vanno incontro i personaggi. Così saturo che persino l’oscurità arriva a vacillare nella sua accezione prettamente negativa, quando il dissolversi della stessa a causa del misterioso alone luminoso diviene una minaccia peggiore che trovarsi nel buio pesto.
Due illustrazioni molto diverse per tentare di rappresentare l'indescrivibile colore alieno
Nelle opere di Lovecraft il colore resta comunque molto vicino a quelli che erano gli usi nel canone occidentale dell’horror. Se il rosso, in quelle sue rare istanze, acceca con sprazzi brevi e intensi di violenza sanguigna, il nero è invece quasi ubiquitario, manifestandosi nelle tinte degli Antichi, negli ambienti teatro delle vicende e spesso, sinistramente, nelle intenzioni, nei volti e negli sguardi dei personaggi, nonché nella morte quando questa soggiunge. La semantica del nero legata alla morte ha radici antiche probabilmente legate alla natura stessa dell’uomo, eppure ha sempre vantato una doppia e opposta valenza, come il colore tetro e mortifero dell’hora nigra di Virgilio, Orazio e Tibullo e ugualmente come il colore sacro delle celebrazioni funebri egizie, legato alla fecondità della terra e al passaggio delle anime verso ciò che le attende.
"The Shadow from out of Time": l'ombra dell'ignoto
Questa oscurità così duttile e sfaccettata popola densamente anche The Shadow from out of Time (1934): storia della Grande Razza degli Yith, creature in grado di muoversi attraverso il tempo stesso e che indagano l’universo e le altre forme di vita possedendole e plagiandone la mente. Superiori alle limitazioni delle tre dimensioni, il racconto narra l’arrivo sulla terra di uno Yith, che entra nella mente di Nathaniel, protagonista e narratore della vicenda, e che lo farà apparire alienato e folle agli occhi degli altri personaggi.
L’ombra di cui accenna il titolo è questa creatura, ibrido di una presenza nascosta e parassita e del corpo originale ormai sconosciuto, il cui interesse sembra essere di raccogliere informazioni, storie e culture di ogni razza in ogni tempo per collezionarle in una immensa biblioteca yithiana. Così la conoscenza ereditata dall’umano al termine della possessione, i “ricordi” delle conseguenze del primo conflitto bellico mondiale e altri sprazzi di un futuro ignoto o del passato più lontano vengono etichettati come “black knowledge” mentre Nathaniel cerca di ricostruire studi e viaggi fatti dall’altro sé durante “the dark years”.
Neri e minacciosi, questa tinta sottolinea come l’ignoto sia percepito scomodo e pericoloso, evitato dagli altri personaggi che lo riducono a follia forse per non affrontare la paura generata dall’invasione dei propri spazi vitali, ma finendo per ignorare un’altra sostanziale verità, che quella black knowledge rinnoverebbe ed espanderebbe l’apice della conoscenza, se abbracciato. L’intento supremo degli Yith di studiare conoscere e preservare, è reso abominevole poiché non è portato avanti dall’uomo, anzi, sembra quasi venirgli rubato.
Qui si concretizza uno degli artefatti retorici preferiti dalla letteratura horror: la definizione dei confini degli spazi fisici e culturali popolati dall’uomo, e la successiva creazione di una turbolenza in questi, che da semplice disturbanza a forza eradicatrice si configura come ineluttabile e obbliga l’uomo alla fuga o a mutare se stesso e le sue convinzioni – contrariamente a ciò che fa per natura da sempre, ovvero modificare l'ambiente che lo circonda per adattarlo alle proprie necessità.
Altro elemento di dissonanza nella narrazione: gli Yith sono così simili agli uomini da avere anche loro taboo e paure, la più grande delle quali è rappresentata da monolitici artefatti di pietra nera che testimoniano tracce di un’altra razza aliena che per prima provocò la fuga degli Yith dal loro mondo nel tempo: “the queer dark stone was something which I had dreamed and read about […] one of the blocks of that basaltic elder masonry which the fabled Great Race held in such fear”.
Nell’avventurarsi dentro uno di questi megalitici monumenti sotterranei, Nathaniel affronta la discesa “through the blackness of the abyss” cercando di riappacificarsi con i ricordi occulti e i frammenti di sogno, ma più salgono i ricordi e minore è la comprensione del personaggio di ciò che gli accade, fino a crollare nuovamente nel panico “amidst the engulfing blackness“ in seguito al ritrovamento di un libro che testimonia tanto gli Yith Terrestri di eoni prima quanto la sopravvivenza delle creature che li sterminarono.
Il protagonista sembra spogliato del suo ruolo, quasi obbligato a seguire le scelte dettate dalla shadowy reason, mentre la razza aliena, inizialmente presentata come ostile, prende poi la forma di una nuova “umanità 2.0”, illuminata e sapiocentrica, la cui darkness è tale solo agli occhi degli esseri umani: il nero e l’oscurità in questo racconto giocano un ruolo determinante, palesando tanto le minacce imminenti quanto le uniche forme di guida e orientamento utili al personaggio.
Nell'utilizzo del colore in Lovecraft, uno dei maestri dell'incubo, si ritrova chiaramente quella che è la dinamicità del nero, già centrale nella letteratura horror di tardo Ottocento e che col nuovo secolo andrà incontro a evoluzioni e arricchimenti sempre più forti, cavalcando l’onda dell’industrializzazione e della massificazione, ma pur rimanendo nulla più che un costrutto astratto dalla materia, un vuoto contenitore che ogni autore si diverte a riempire di tutto ciò che gli serve.
Il nero, duttile e ubiquitario, nella sua veste nel mondo reale non è altro che una macchia di fuliggine su di un oggetto che incontriamo, mentre nella letteratura come nell’arte tutta è ormai carico di secoli di storia, di un susseguirsi di culture e di una semantica tra le più ricche e impegnative da esplorare.
A cura di Fulvio Scuteri
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