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Immagine del redattoreLaura Patti

La maledizione degli Hemingway

2 luglio 1961: il celebre scrittore e giornalista statunitense Ernest Hemingway si suicida con un colpo di fucile nella sua abitazione di Ketchum, nell'Idaho.

Dopo essere stata svegliata all'alba da un fortissimo colpo, fu la moglie Mary a ritrovare il corpo esanime del coniuge accanto al suo fucile da caccia.

Proprio pochi giorni prima Mary, quarta moglie dello scrittore, lo aveva sorpreso con il fucile e delle cartucce in mano, ma il marito le aveva risposto che intendeva soltanto "dargli una ripulita". Allarmata, anche a causa dei sempre più gravi problemi di salute di Hemingway, Mary aveva riposto l'arma all'interno di un armadietto e l'aveva chiuso a chiave. A nulla servì il gesto della moglie, poiché quella domenica mattina di luglio, oltre al corpo del marito, trovò anche le chiavi riposte sopra il tavolo della cucina.



Hemingway fu un grande artista, che condusse una vita vissuta a pieno, ma estremamente irrequieta, poiché segnata da continue crisi depressive e malattie. Fu testimone della guerra civile spagnola e si schierò dalla parte repubblicana e anti-franchista. Si sposò per ben quattro volte -da un temperamento del genere non ci si poteva aspettare altro- e girò in lungo e in largo il mondo, da Parigi, alla Spagna, a Cuba. Scrisse capolavori del calibro di Addio alle armi, Morte nel pomeriggio, Per chi suona la campana e Verdi colline d'Africa.

Incarnò la figura esaltante dello scrittore avventuriero, immerso fino al collo in una foresta di storie di Umanità vissute e raccontate. Diventò, per l'epoca, una celebrità. Nel 1954 venne insignito del Premio Nobel per la Letteratura per la sua opera più celebre, il racconto Il vecchio e il mare, del 1952. Era il coronamento del suo prestigio letterario, una sorta di premio alla carriera. Hemingway non riuscì però a viaggiare fino in Svezia per la cerimonia, a causa delle ferite riportate in un incidente aereo. Il premio fu ritirato dall'ambasciatore statunitense a Stoccolma, John C. Cabot, a cui Hemingway chiese anche di leggere il discorso che aveva preparato per l'occasione, un testo in cui emerge prorompente la visione che l'ormai vecchio scrittore ha della letteratura e della condanna alla solitudine del mestiere: "Scrivere è un mestiere difficile, da compiersi in solitudine, una ricerca di sé da compiersi al cospetto dell'eternità. [...] La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria".




Questa condizione di solitudine cosmica ed ineluttabile influenzerà in modo netto i lavori maturi dello scrittore americano. che risentiranno della tensione verso questo pessimismo eroico, fatto di uomini che lottano sognando un riscatto evidentemente impossibile, senza via d'uscita. La scrittrice Fernanda Pivano, ambasciatrice della letteratura statunitense in Italia e traduttrice per le edizioni nostrane, lo descrisse come "uno scrittore tragico, schiacciato dalla disperazione per un mondo dilaniato dal conflitto tra la bellezza della realtà naturale e l'inesorabile caducità della condizione umana".


Questione di sangue

Le origini della "malinconia" di Hemingway hanno probabilmente radici più profonde e, come dire, ancestrali. Clarence Hemingway, il padre, stimato medico di professione, soffriva di depressione e si suicidò con la pistola di famiglia nella sua abitazione a Oak Park, Illinois, il 6 dicembre del 1928. Lo fece in un momento storico estremamente tragico: era il 1928 e si era alle porte di quel fatidico '29, l’anno della Grande Crisi finanziaria. Si tratta di un gesto disperato diventato molto comune per molti altri uomini, soprattutto imprenditori falliti e lavoratori disoccupati, che vennero travolti dallo sconforto di una cristi economica epocale, destinata ad essere ricordata come una delle pagine più nere nella storia americana. Durante lo stesso periodo la moglie Grace aveva intrapreso la carriera artistica, abbandonando il remunerativo insegnamento della musica, e lasciando l'intera responsabilità della numerosa famiglia sulle spalle di Clarence. Arrabbiato per questo "voltafaccia" e angosciato dalla crisi economica e dal crollo della sua prestigiosa posizione sociale, l’uomo non resse allo sconforto. Si era sentito da sempre un membro privilegiato di Oak Park, cittadina “aristocratica” della provincia americana, e visse la decadenza della famiglia di cui si sentiva responsabile con uno stato d’animo ansioso e paranoide. E alla fine si uccise. Ernest Hemingway non intratteneva buoni rapporti col padre, lo aveva anzi attaccato e denigrato più volte, nei suoi scritti. Non tollerava il suo perbenismo borghese e classista e non sopportava i suoi continui ammonimenti. Forse anche per questo si dedicò ad una professione poco apprezzata dal padre, quella dello scrittore. Quando Clarence si suicidò, Hemingway aveva ventinove anni e, avendolo attaccato e poi abbandonato sin da ragazzo, visse costantemente col dubbio di essere in parte responsabile della sua morte.


La famiglia Hemingway in una foto del 1905. Al centro il padre di Hemingway, Clarence.

Morire è una cosa semplice

Al suicidio del padre nel 1928 segue quello di Ernest nel 1961, ma non sarà questo l’ultimo caso della famiglia Hemingway. Per una serie incredibile di storie nefaste, la sorella minore Ursula si suicida nel 1966 con un'overdose di medicine a 63 anni: soffriva di cancro e di depressione. Anche il fratello, Leicester, debilitato dal diabete e gravemente ammalato da tempo, si suicida nel 1982 con un colpo di pistola alla testa. Era stato proprio Leicester a trovare il corpo del padre senza vita nella sua abitazione, quel fatidico giorno del 1928. La lunga scia di suicidi ha continuato a mietere vittime anche negli anni a venire, continuando una tradizione che ha tinte quasi cabalistiche. ll 1° luglio del 1996, dopo alcuni giorni in cui nessuno aveva più avuto sue notizie, la polizia fa irruzione nell’appartamento di Margaux Hemingway, attrice e modella americana, nipote dello scrittore Ernest. La donna, 42 anni, è morta da diverse ore: l’autopsia, che parla di probabile suicidio, rivelerà un’overdose di pentobarbital, un barbiturico che assumeva per curare una forma di epilessia. Per una tragica coincidenza, o forse in modo niente affatto casuale, il giorno successivo, il 2 luglio, sarebbe stato il 35esimo anniversario del suicidio del nonno.


Un destino, quello della dinastia Hemingway, che assomiglia malinconicamente alla parabola di disperazione della storia privata di Ernest, un uomo capace di sopravvivere a due guerre e vederne- e raccontarne mirabilmente- gli orrori; un uomo capace di sopravvivere ad un disastro aereo e rendere la propria vita un romanzo d'avventure, eppure incapace di sostenere le miserie della vecchiaia e della redenzione promessa.

Decise di lasciare un mondo in cui stentava a riconoscersi, che iniziava a cambiare in modo sempre più rapido, un mondo che non aveva più le forze di cavalcare. Usò il suo fucile preferito, che aveva usato tante volte nelle sue scorribande nell'Africa nera, pochi anni dopo aver raggiunto lo status di "vate" della Letteratura.

Il suo rapporto con la morte era chiaro, limpido, veritiero, e per questo la affrontò non appena si sentì pronto, lasciando ai posteri l'ultimo segno luminoso della sua vita: renderli orfani. Poco più che ventenne, nel 1918, scriveva, in una lettera ai genitori, delle parole che potremmo definire, alla luce di quello che sarebbe successo, profetiche:

Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto… E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse“.


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