Il mondo del calcio è popolato di storie particolari e di personaggi di ogni genere: bevitori incalliti, futuri attori, rapinatori per gioco ammazzati sul serio. Poi ci sono i filosofi , quelli che in campo pensano, mentre gli altri corrono. Sòcrates era l’incarnazione di questa massima. La sua storia si intreccia con quella della Democracia Corinthiana. Unica nel suo genere.
C’è un passo di un libricino di Coelho Il manuale del guerriero della luce, che recita:
«Un guerriero della luce non ha mai fretta. Il tempo lavora suo favore […]. E’ consapevole di essere partecipe di un momento decisivo della storia dell’umanità. […] Perciò ricorda le parole di Lanza del Vasto: 'Una rivoluzione ha bisogno di tempo per instaurarsi.' ».
Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti Sòcrates, di fretta non sembrava averne. Né fuori, né dentro il campo. Personaggio estremamente affascinante perché esula da tutti i canoni in cui la nascita del calcio professionistico ha rinchiuso i suoi attori principali, i calciatori. Ma, per capire il perché di tutto questo, dobbiamo fare un po' di ordine. Partiamo dall’inizio.
Os apelidos
La cultura popolare di chi sta “a sud di qualcosa” (a sud dell’Italia, o a Sud dell’America) vuole che ci si identifichi più attraverso i soprannomi che tramite i nomi di battesimo o il cognome. E’ una consuetudine particolarmente sentita nelle Regioni del Sud Italia, in particolare nei piccoli centri. Anche in America Latina, quindi in Argentina e Brasile, dove rispettivamente gli apodos e gli apelidos si legano indissolubilmente alla persona e la elevano al rango di personaggio. Gli apelidos, in Brasile, sono indelebili come tatuaggi che, vuoi o non vuoi, vengono rilasciati nel derma della tua storia personale, e da lì non se ne vanno più. Tutti, e dico tutti, hanno un soprannome. Il padre del mio caro amico, di professione architetto? “Padão”, nome brasiliano di uno dei personaggi del fumetto di Zio Paperone. Onestamente, non ricordo quale. Dico “vengono rilasciati” perché l’apelido lo scelgono sempre “gli altri”, mai tu. E’ un diritto che non ti spetta. E devi essere veramente eccezionale in qualcosa per riuscire a cambiarlo: solo così Ronaldo, QUEL Ronaldo, è riuscito a cambiare in “O Fenomeno” il soprannome con cui aveva iniziato al São Cristovão, “O Dadado” (una pronuncia sgangherata del fratellino, che proprio non riusciva a chiamarlo Ronaldo). Solo così Sòcrates è passato dall’essere “O Magrão” (a.k.a “tipo smilzo e alto”) a “O Doutor da bola” . Non credo servano traduzioni, ma una spiegazione è doverosa: Sòcrates non era solo un calciatore professionista di altissimo livello, ma anche un medico. E un pensatore. Il nome glielo sceglie suo padre, Seu Raimundo, quando il suo primogenito nasce a Belèm, nello Stato di Parà, il 19 Febbraio del 1954. Nonostante abbia frequentato appena la seconda elementare, attraverso un percorso da autodidatta Raimundo arriva a ricoprire un posto da impiegato nel settore pubblico. E, nonostante abbia frequentato appena la seconda elementare, si appassiona alla filosofia. Capisce quanto la lettura sia importante nella vita. Legge la Repubblica di Platone e ha l’illuminazione: il protagonista, infatti, è proprio Socrate. Sarà lui, da quando si trasferisce con la famiglia a Ribeirão Preto, a trasmettere la passione per la lettura al figlio.
Genesi del genio
Nel 1964 Sòcrates frequenta la Facoltà di Medicina della USP, l’Universidade de São Paulo, a Ribeirão Preto; più nello specifico, pediatria. Studia come un pazzo, anche di notte, e ha passioni e vizi: il fumo, l’alcol , la politica ed il calcio. Lo accompagneranno, nel bene e nel male, per tutta la sua vita. In campo è un “animale strano: è alto 1,93 m, ha un piede piccolo (calza il 38) ma educato come i suoi modi di fare. Colpisce bene di testa, gioca in mezzo al campo e ha una visione di gioco “futuristica” che ha poco a che fare con il calcio degli anni ’70 e ’80. Vede linee di passaggio che non esistono e, sin dall’inizio, si fa spazio una sua peculiarità, il colpo di tacco. Molti dicono che lo fa per narcisismo, altri perché è troppo alto e macchinoso per girarsi con rapidità; lui semplicemente risponde : «Lo faccio per farvi innamorare.». Essenziale e geniale. Ah, è lento e atleticamente non è proprio il massimo della performance : una conseguenza piuttosto logica del fatto che fuma quasi un pacchetto di sigarette al giorno, ama la birra e non si allena. E’ un patto che ha stretto con la sua squadra, il Botafogo (solo omonimo del più famoso club del Paraiba) per consentirgli di continuare gli studi; d’altro canto, il calcio per lui è (e rimarrà sempre) un hobby: a chi gli chiede «cosa fai nella vita?», risponde «sono uno studente di Medicina». Al club la cosa va più che bene, visto che in 4 anni passa dalle giovanili alla prima squadra, vince il premio come miglior giovane del Paulistão (il massimo campionato dello Stato di San Paolo) , segna un centinaio di gol (e non è un attaccante), diventa capocannoniere nel ’76, regala giocate d’autore e il titolo nel ’77. Nonostante l’impegno degli studi e una certa bonaria svogliatezza durante gli allenamenti, Sòcrates capisce che le cose straordinarie che fa in campo gli vengono fuori con relativa facilità. E, come accade per ogni mito, arriva il momento in cui l’epica scende dal cielo e bacia la sua testa riccioluta di ventiquattrenne. 23 Marzo 1977: Santos – Botafogo, partita del campionato paulista. Un match che non avrebbe nulla da dire, dato il divario tecnico delle squadre in campo. E infatti il Santos conduce per 2 a 0. In tribuna siede “O Rey” Pelè, ed è inutile che mi dilunghi sui motivi per cui si dibatte, ancora oggi, su chi sia stato il miglior giocatore della storia tra lui e Maradona. Ma c’è un dettaglio che tengo a sottolineare: il piccolo Sòcrates, come tanti altri bambini della sua generazione, si innamora del drible de vaca di Pelè, diventa tifoso del Santos e costringe suo padre (che al calcio non è minimamente interessato) a portarlo allo stadio quando la squadra in cui gioca O Rey è ospite del Comercial o del Botafogo. Si fa persino comprare la maglietta bianca della squadra santista. Quel giorno, Pelè è in tribuna, ma Sòcrates è in campo. Ruoli invertiti.
Nel secondo tempo, il Botafogo accorcia proprio con O Doutor , che insacca di testa in tuffo. Poi, colpo di magia: Sòcrates se ne va palla al piede, semina un difensore, scavalca il portiere con un cucchiaio, la palla va sul palo. Cazzo.
Sulla respinta il pallone gli finisce tra i piedi, i difensori gli arrivano addosso, ma lui la nasconde con la suola e segna di tacco. O Rey, sugli spalti, si alza ed esclama : «Quell’uomo è un genio!». I giornalisti prendono appunti sui taccuini, e alla sera O Doutor è già leggenda. Quella partita finirà 2 a 3 per il Botafogo.
A dire il vero, io preferivo il gol in tuffo di testa…Ma, si sa, “de gustibus non disputandum est”.
A cura di Mattia Crispino.
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