Il razzismo è diverso da ciò che si è visto l’altra sera a Parigi. Il razzismo è voluto, manifesto e ha un unico, inequivocabile scopo: ferire. Quanto accaduto qualche giorno fa durante la gara di Champions League tra PSG e Basaksehir si può qualificare, in tutto e per tutto e senza alcuna esitazione , come un gesto di razzismo?
Per chi non ne fosse a conoscenza, un breve riepilogo dei fatti: durante la partita (siamo al 13’ del primo tempo) il quarto uomo Sebastian Coltescu, rumeno, indica all’arbitro Ovidiu Hategan, anch’egli di nazionalità rumena, che è l’assistente tecnico del Basaksehir Pierre Webo colui che dev’essere espulso per eccesso di proteste. Tuttavia, lo fa utilizzando il termine “negru” (che in romeno vuol dire “nero”, non “negro”). Webo, a quel punto, rimprovera ad alta voce Coltescu (“Why do yousay “negru”?”) e gli fanno eco Demba Ba e il resto della squadra (“Perché ai giocatori bianchi ti rivolgi con “this guy” mentre ai quelli di colore con “this black guy”?). I giocatori del Basaksehir decidono di abbandonare dunque il campo, e così anche quelli del PSG, che avevano visto tra l’altro Neymar (che poco tempo fa è stato vittima di un episodio di razzismo contro l’Olympique di Marsiglia) e Mbappè supportare la causa di Webo. Partita sospesa e rinviata al giorno dopo.
Ma a questo punto, sorge un dubbio: si tratta di un vero episodio di razzismo o di un qui pro quo linguistico? E’ in questa area grigia che trovano terreno fertile il tamtam mediatico e le condanne dell’opinione pubblica. Se è vero, da un lato, che Coltescu avrebbe potuto benissimo rivolgersi all’arbitro Hategan cercando di indirizzarlo verso Webo senza usare la parola “negru” (è quindi, comunque, un comportamento indelicato), dall’altro tutta la questione potrebbe essere stata generata da un semplice fraintendimento linguistico. D’altronde, la reazione di Webo è stata più veemente per la parola in sé, non per il fatto che il quarto uomo si sia rivolto ai giocatori di colore con un termine diverso da quello utilizzato per indicare i giocatori bianchi. Tant’è che Webo é giunto ad un chiarimento pacifico con Coltescu, specificando, per l’appunto, di non reputar e il quarto uomo rumeno un razzista, ma di non aver apprezzato l’utilizzo del termine.
Ciò che cattura di più l’attenzione non è (quantomeno, non solo) la scelta sbagliata di Coltescu , quanto la gogna mediatica e la condanna immediata , unanime e proveniente da personaggi pubblici, media e istituzioni, di un gesto di cui non si conoscono nemmeno con precisione i retroscena. A comprova di ciò, tra le varie notizie che si abbattono come uno tsunami sul web, spunta fuori quella che metterebbe in dubbio l’autore dell’offesa (sembra addirittura non sia stato il quarto uomo, ma il guardalinee). Addirittura, viene messa in dubbio persino l’origine del fatto, dato che alcune notizie riportano come, in precedenza, gli stessi giocatori della panchina del Basaksehir abbiano chiamato “zingari” i componenti della quaterna arbitrale.
Molte persone dimenticano, d’altro canto, che anche l’industria dell’informazione deve fare profitti, e che tra le varie armi che ha a disposizione vi è quella di aumentare il numero di click sulle loro pagine. Appare quasi pleonastico chiarire che un risultato del genere si raggiunge facendo del sensazionalismo, gonfiando o inventando le notizie, scavando negli anfratti più reconditi della vita del protagonista pur di diffondere notizie sull’accaduto, che attirino la curiosità dei lettori.
Così, oltre ai sospetti sul “chi è stato” e “chi ha iniziato”, appaiono vere e proprie biografie su Coltescu, dipinto come un soggetto problematico, perché si è divorziato due volte, ha perso i genitori da poco e ha arbitrato discutibilmente una partita del campionato rumeno.
Tutti elementi che, a quanto pare, sembrano avere tantissimo a che fare con l’aver assunto un atteggiamento sbagliato nei confronti di Webo. E, intanto, la bolla si gonfia. La quaterna viene squalificata, Coltescu si veste dei panni del villain, l’UEFA posta sui social il solito“ SAY NO TO RACISM”(e che ha anche un leggero retrogusto di ipocrisia) . Persino Erdogan, che di discriminazione è un maestro, si arroga il diritto di dire la sua e condannare Coltescu.
MA IL RAZZISMO E’ ALTRO NELLO SPORT. Sono i cori, gli striscioni, gli sputi, le banane lanciate addosso ai giocatori di colore. E’ Daisy Okasue, nigeriana, della Nazionale italiana di lancio del disco che subisce le offese degli utenti che si meravigliano del fatto che sia italiana. E’ Colin Kaepernick, ex quarterback dei 49ers, che si inginocchia durante l’inno nazionale per protestare contro la violenza della polizia contro gli afroamericani e non viene più ingaggiato da nessuno.
E FUORI, E’ ALTRO ANCORA. E’ George Floyd di Minneapolis, o è l’idea dell’italiano medio che tutti gli immigrati che arrivano sui gommoni portino criminalità e rubino il lavoro.
Il rischio di questi “processi sommari” per fatti di cui non si ha assoluta certezza nelle grandi manifestazioni sportive può essere addirittura quello di svilire il significato stesso della lotta al razzismo. Se ogni cosa viene esasperata diventa razzista e viene condannata con la damnatio memoriae, allora può accadere che, da un lato, anche un’affermazione oggettivamente riscontrabile, anche fatta senza scopo discriminatorio alcuno, diventi un capo d’accusa; dall’altro, gli episodi di razzismo vero e proprio rischiano di “perdere peso” nella percezione comune della problematica. Che c’è, è concreta e va risolta attraverso “l’educazione alla coscienza” di tutti.
NOTA DELL’AUTORE: dato che, quando si affrontano certi argomenti, il rischio di cadere nelle sabbie mobili delle etichette è alto e quello di ricevere critiche dovute a cattive interpretazioni lo è altrettanto, tengo a precisare che non parteggio in alcun modo per ideologie xenofobe, e che la mia è una mera interpretazione di quanto accaduto, nel tentativo di inquadrarlo nella prospettiva più obiettiva e acritica possibile.
Il nodo centrale della mia riflessione non verte sull’alleggerire il peso di uno sgradevole (e, probabilmente , xenofobo) comportamento, quanto la velocità e la sconvolgente facilità nell’elaborare un giudizio sommario su qualcosa di cui non si conoscono motivazioni e dinamica in maniera precisa e dettagliata.
Un processo sommario che lascia, sempre e comunque, un’etichetta e una macchia indelebile nella vita di una persona.
A cura di Mattia Crispino.
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