Maradona o Copernico? Di chi è la rivoluzione più famosa?
Si tratta di una domanda provocatoria, ma pensateci bene: l’effetto che D10S ha avuto sul mondo ha coinvolto, e sconvolto, non solo la cultura calcistica e, più in generale, sportiva ma, indomabile come una slavina, ha investito la cultura di massa e la società. Persino la religione è stata coinvolta in questo fenomeno: ancora oggi è attivo il culto della Iglesia Maradoniana, religione che permette di sposarsi in campo con regolare celebrazione del rito nel nome di Diego.
Due mesi fa Maradona lasciava le spoglie mortali, e tutto il mondo lo ha celebrato con un’intensità e una partecipazione che si riconosce soltanto ai grandi personaggi storici. Persino io, che ho solo “studiato” El Pibe de Oro senza viverlo e che non ho mai nutrito una sincera simpatia nei suoi confronti, ho provato una sensazione di vuoto nel momento in cui ho realizzato che una parte del mio mondo, quello del calcio che amo e che vivo dalla più tenera età, era sparita per sempre.
Un brivido ha percorso ogni terminazione nervosa della mia spina dorsale mentre cenavo e guardavo quante persone gli rendevano omaggio. Tutti, dai tifosi ai capi di Stato, hanno celebrato Maradona.
Questa, forse, è solamente la dimostrazione più lampante di quanto il suo modo di essere divino in campo ed eccessivo fuori lo hanno elevato, nel bene e nel male, ad icona. Ne hanno scolpito i tratti nella roccia dell’eternità. É diventato metro di paragone dell’essenza del calcio. Se si dice “E chi è arrivato, Maradona?” di fronte a qualche magia venuta fuori al campetto un po’ per caso, ci sarà un motivo, no?
Diego è stato, allo stesso tempo, icona ed iconoclasta.
E, statene pur certi, ci saranno (ahimè!) alcuni che non ricorderanno chi era Copernico, ma tutti ricorderanno chi era Maradona.
Ma perché e come è stato possibile che un uomo, con la sola forza dei piedi e di un carattere non certo esemplare, sia riuscito ad imprimere al mondo un senso di rotazione opposto a quello in cui girava fino ad allora?
Partire dall’inizio è sempre un buon modo. Villa Fiorito, uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires. Un agglomerato di baracche in legno e lamiera in cui l’acqua potabile, le strade asfaltate e le fognature negli anni ’60 sono un miraggio. Ancora oggi, se vi dovesse capitare di andarci, vi sarebbe facile rendervi conto del perché un Paese come l’Argentina dichiari di avere 1/3 della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà.
Pipo Mancero è considerato, in quel periodo, il “Pippo Baudo argentino”, e capisce per primo il valore aggiunto della “tivù della verità”; se ne va quindi in giro per le periferie alla ricerca di storie che valga la pena raccontare.
Gli arriva la voce che c’è un bambino di 8 anni, tra quelle baracche, con i capelli neri e ricci che tutti chiamano “Pelusa” e che, si dice, abbia un sinistro da dio. Anzi, il sinistro di Dio. Anni dopo gli donerà anche una mano, ma è una storia a cui arriveremo.
Decide dunque di andare lì ed intervistarlo. Il bambino ha già addosso una maglia numero 10, sporca, stropicciata e impolverata, ma è già sua, non gliela toglieranno mai più di dosso. A Mancero il piccolo Diego rivela i suoi sogni: “giocare un Mondiale con l’Argentina” e “vincerlo”. Si vede che Dio, oltre a donargli un talento fuori da ogni concezione umana, gli aveva fatto dono anche della preveggenza.
Un giorno, poi, Gregorio Carrizo, per tutti “El Goyo”, per Diego un fratello, corre alla ricerca del suo amico. Ha una grande notizia da dargli: l’Argentinos Juniors, una delle squadre più blasonate d’Argentina e un settore giovanile che è praticamente una fucina di futuri campioni, lo ha convocato.
Ma c’è di più: Gregorio ha chiesto agli allenatori di andare a cercare anche Diego perché, a suo dire, “è persino più forte di lui”. Gli allenatori dell’Argentinos, per una volta, ci credono e vanno dai suoi viejos, Don Diego e Doña Tota, per chiedergli se lasciano andare il loro figlio ad allenarsi con i “Bichos Colorados”. I biglietti del bus per arrivare al campo delle Malvinas costano tanto per la famiglia Maradona, ma Doña Tota capisce che è una buona occasione. Così Pelusa attraversa il ponte della villa, fino ad allora il confine del suo mondo, e arriva alla cancha, il campo di allenamento.
C’è un problema: è venuta giù una pioggia torrenziale, il campo è praticamente uno strato d’acqua omogeneo. Qui entra in scena Francisco Cornejo, altro un personaggio fondamentale dell’epica maradoniana: è infatti il suo primo vero allenatore. Oltre ad essere, all’epoca, il miglior allenatore giovanile d’Argentina, al punto da essere ricordato come “El descubridor del siglo”. E lui, quel giorno, decide di portare i ragazzi al Parco Saavedra per farli giocare.
Secondo la biografia di Diego Maradona, quella fu una partita di taquitos y sombreros. Cosa vuol dire? Controllo, sombrero al volo all’avversario e tiro all’incrocio dei maglioni, pali occasionali immersi che si perdono nella tierra argentina (polvere). Il tutto, ça va sans dire, di sinistro. Perché il destro lo usa al massimo per scendere dal letto.
A fine partita tutti si rendono conto di aver visto qualcosa che non capita tutti i giorni. Ma c’è ancora un dubbio, e Don Francès ci tiene a tutti i costi a svelarlo: a quei tempi, infatti, non era raro che ragazzini di 14/15 anni si spacciassero per bambini di 8/9 anni. Erano nani, e somaticamente non vi era praticamente alcuna differenza. C’è solo un modo per capire se Diego non lo è.
“Nenè (bimbo), sei sicuro di essere nato nel ’60?”
“Certo, Don Francès, lo giuro!”
“I documenti?”
“…Non ce li ho.”
“Lo sapevo, lo sapevo! Il più forte di tutti è un nano!”
Ma la sensazione di aver visto un treno che passa di lì una sola volta nella vita è troppo insistente. Si decide quindi di andare da Doña Tota a chiedere un qualsiasi documento che testimoni che Diego è un classe ’60. Dopo un po’ di ricerche, spunta il certificato di nascita: recita “Data di nascita: 30/10/1960”.
Anni dopo Don Francès dirà :“Diego te lo porta Dio. Tu devi fare solo una cosa: stare attento”. Il 1968 è l’anno in cui il mondo comincia a girare in senso contrario.
Piccolo excursus storico sul primo club di Maradona
Gli Argentinos Juniors sono una squadra di ispirazione socialista, tanto che il colore sociale è il rosso e il primo nome del club è “Los Martires de Chicago”, in onore di una protesta, di matrice socialista, scoppiata a Chicago e finita nel sangue.
E, a proposto del nome, Don Francès non può presentare quella squadra di fenomeni come Argentinos Juniors: gioca nel torneo regionale, con squadre che si chiamano , ad esempio, “I tre dell’angolo”. Decide quindi di iscrivere la squadra con il nome di “Las Cebollitas”, “Le cipolline”. 136 vittorie di fila. Nel frattempo, Diego delizia anche gli spettatori negli intervalli delle partite della prima squadra, al punto da far ritardare l’inizio del secondo tempo, al grido “Que se vajan!!” (“Che se ne vadano [le squadre, n.d.r.]”).
Pelusa cresce, la sua metamorfosi ne ”El Pibe de Oro” e nella sua fase iniziale, gioca con una sola idea in mente: comprare una casa alla sua famiglia e andare via da Villa Fiorito per sempre. Ci riuscirà a nemmeno 16 anni, quando esordirà in prima squadra e il club gli darà un appartamento a 10 minuti dallo stadio. Si trasferirà con tutti e otto gli altri membri della famiglia: los viejos, quattro sorelle e due fratelli.
Ecco uno dei motivi per cui Maradona assurge ad icona della cultura di massa: perché è venuto fuori dal nulla. Came out from nothing. A cura di Mattia Crispino.
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