Conoscete la fiaba della Bella Addormentata nel Bosco? Molti di voi la conosceranno in varie versioni, la più nota è quella disnenyana, in cui è espresso l’happy ending che tutti vorremmo, quel felice e contenti che ha fatto sognare intere generazioni. Ma la storia non è così rosea. La fiaba, per quanto assai antica, divulga un messaggio importante ai giovani che si approcciano ad essa. Un messaggio che «insegna che un lungo periodo di quiescenza, di contemplazione e d’introspezione può produrre e spesso produce i massimi risultati» (Bettelheim, 2015). Bisogna compiere un viaggio nelle profondità della terra fino a trovare le radici in quella che è la tradizione popolare.
Quello che voglio portare alla luce è una storia diversa, una storia che pone l’accento su particolari poco noti ai conoscitori di questa fiaba, particolari imbevuti di cultura greca e latina, fino a giungere all’età evolutiva dell’infante, in quella fase di torpore che lo porterà all’adolescenza.
Sole, Luna e Talia
La Bella Addormenta è a noi nota grazie alla raccolta dei fratelli Grimm ma essa ha origini ancor più antiche. La versione Seicentesca è firmata dalla penna di Giambattista Basile col titolo Sole, Luna e Talia. Già a quell’epoca la storia apparteneva a un vecchio tema in quanto erano già note versioni francesi e catalane della fiaba risalenti il quattrocento che servirono come modelli a Basile, seppur non si basò su fiabe popolari del suo tempo, che sono finora ignote a noi.
La versione del letterato Campano differisce da quella di Perrault e dei fratelli Grimm in diversi punti della storia, la costante e il maleficio e il sonno della fanciulla durato cent’anni. Il primo punto su cui questa storia diverge dalle altre due è la nascita della fanciulla. Il nome che le viene dato da Basile è Talia, e alla sua nascita il re chiese agli stregoni e veggenti il destino della fanciulla. La conclusione fu funesta come è ben nota. Ma questa non è la storia da happy ending, le fiabe sono crude, le fate non sono candide, i re non sono quei cavalieri cortesi.
Talia va incontro al suo destino e una scheggia di canapa le si infilza sotto l’unghia del dito con cui giocherellava col fuso, elemento funesto per la sua vita. Ella cadde a terra come morta e il padre decise di lasciare la figlia senza vita seduta su una sedia foderata di velluto e la celò al mondo lasciandosi alle spalle il dolore della perdita. Ma ella non era celata dal mondo perché un re mentre era a caccia si introdusse nel castello per recuperare il suo falco ma quello fu l’incontro con la fanciulla.
Egli abusò della donna per diverso tempo finché un giorno se ne andò dimenticandosi della giovane. Questa però dopo nove mesi diede alla vita due gemelli. Questi si nutrirono da soli dal seno della madre è proprio quel nutrimento salvò la donna.
«È il bambino, succhiando via la spina infitta sotto l’unghia della madre, che la restituisce alla vita: un simbolo che il bambino non è soltanto il beneficiario passivo di quanto la madre gli dà, ma inoltre le rende attivamente un grande servizio. Questo gli è consentito dal fatto che essa lo allatta, ma è proprio questo stesso fatto che la risveglia alla vita: una rinascita che, come sempre nelle fiabe, simboleggia il raggiungimento di uno stato mentale superiore». (Bettelheim, 2015)
Il lungo sonno ha termine solo quando ella dà al bambino nutrimento ed egli, prendendo da lei, la reintegra alla vita. «Un rapporto di reciprocità in cui la parte che riceve dà a sua volta la vita» (Bettelheim, 2015).
I figli di Talia sono chiamati Sole e Luna. Questo ci porta ad ipotizzare che Basile attinse alla cultura greca, in particolar modo dalla storia di Latona, uno degli amori di Zeus che gli diede Apollo e Diana, il dio Sole e la dea Luna.
Il re si ricorderà della donna abbandonata e quando avrà fatto ritorno nel castello la ritroverà destata dal suo sonno e con i figli generati durante il periodo di quiete della donna. Egli con la sua consorte non aveva generato eredi, così decise di portare con se a palazzo la donna con i suoi piccoli. La storia si conclude con l’uccisione della consorte del re che voleva cucinare Sole e Luna e darli come pasto al padre. Questi però vengono salvati dal cuoco che impietositosi li nasconde salvandoli da un destino ancor più funesto della madre.
Bruno Bettelheim (Vienna, 1903 – Silver Spring, 1990) psicoanalista dell'infanzia, in Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe sottolinea che la donna diviene completa e come ciò non avviene con l’innamoramento, né con l’atto sessuale, né col parto, si ha soltanto quando si nutre il proprio nato. La storia snocciola esperienze che solo la fanciulla conosce, ed essa deve attraversarle tutte per poter giungere alla completa femminilità.
«Quando la Bella Addormentata cadde addormentata, il mondo si assopì per lei. Il mondo si risveglia a nuova vita quando il bambino vi viene nutrito, perché solamente in questo modo la umanità può continuare ad esistere.» (Bettelheim, 2015)
Questo simbolo decadde nel tempo nelle versioni recenti della storia lasciando la scena, ad essa si introdusse il bacio che desta la principessa dal suo sonno.
Le fate: discendenti delle Moire greche
Al contrario di Basile, Charles Perrault intitola la sua versione Rosaspina aggiungendo nella storia di sua iniziativa la fata offesa che lancia la maledizione, ricorrendo al consueto tema fiabesco delle fate per spiegare perché l’eroina piomba in un sonno simile alla morte, al contrario in Sole, Luna e Talia dove non ci viene detto il motivo della sua sorte. Perrault raddoppia le distanze fra la sua storia e quella dell’autore Napoletano tramutando il re in un principe, nubile e senza figli. Inoltre la storia presenta due parti incongrue: la prima che termina col bacio che desta la principessa con il conseguenziale matrimonio e la seconda dove ci viene detto che la madre del principe è in realtà un’orchessa divoratrice di bambini che vuol mangiare i propri nipoti.
Ma non ci soffermeremo su questo aspetto edipico della storia, piuttosto su uno degli elementi a cui Basile non attinge: le fate.
Ciò per cui è nota la storia di Rosaspina è il desiderio del re e della regina di avere un figlio. Un giorno mentre la regina stava facendo il bagno, una rana saltò fuori dall’acqua dicendogli: - «Il tuo desiderio si compirà: prima che sia trascorso un anno, darai alla luce una figlia» - La profezia si avverò ed il re dalla gioia ordinò una gran festa, alla quale invitò i personaggi più illustri del reame, anche le fate perché fossero propizie alla neonata.
Quando nella scena entrano le fate si innesca l’analogia con la cultura greca e latina. Le fate prendono il loro nome dal latino fatum che significa fato, parola che indica il destino irrevocabile fissato fin dal principio e a cui nessuno può sottrarsi, esse sono dirette discendenti delle Moire greche e delle Parche latine, presiedono alle nascite dei bambini e decidono il destino degli uomini.
Nel reame c’erano tredici fate, ma il sovrano aveva soltanto dodici piatti d’oro per cui dovette invitarne dodici. Al concludersi della festa le fate cominciarono a dare alla bimba i loro doni. Undici fate avevano formulato il loro augurio quando improvvisamente giunse la tredicesima. Ella voleva vendicarsi per l’offesa recagli maledicendo la piccola: - «A quindici anni la principessa si pungerà con un fuso e cadrà morta a terra» -. Pronunciato l’incantesimo voltò le spalle e lasciò la sala. Si fece avanti la dodicesima fata che doveva formulare ancora il suo voto, ella non poteva annullare l’incantesimo ma potte modificarlo: - «La principessa non morirà, cadrà in un profondo sonno, che durerà cent’anni» -
Nelle fiabe italiane e francesi le fate sono creature generose ma permalose, se offese sono capaci di ritirare il loro aiuto e lasciare il protagonista in serie difficoltà, se non vengono invitate a un battesimo, sono capaci di lanciare maledizioni al nuovo nato. Nella versione di Perrault e dei Grimm la piccola viene maledetta per l’offesa recata alla fata che nel caso della fiaba francese è l’ottava, la più anziana. Infatti il numero delle fate nelle varie versioni varia da paese a paese: Francia otto, Germania tredici. Nelle Anciennes Chroniques de Perceforest del quattordicesimo secolo, stampate per la prima volta in Francia nel 1528, tre dee vengono invitate ai festeggiamenti per la nascita di Zellandine. Qui accade un fatto analogo alla storia di Rosaspina, Temi si adira perché manca il coltello al lato del suo piatto lancia una maledizione: nel filare Zellandine s’infiggerà una scheggia di legno dalla conocchia nel dito questo le provocherà un sonno profondo finché il corpo estraneo non le verrà estratto. Sarà la terza dea, Venere, che prometterà di salvare la fanciulla.
L’analogia con Purrault e i fratelli Grimm è incisiva. In Rosaspina vengono invitate sette fate tranne una, ed è proprio questa che scaglia il maleficio, stesso svolgimento che avviene nella novella dei Grimm. Nonostante i doni che le fate porgono alla piccola differiscono nelle varie versioni la maledizione e il conseguenziale intervento dell’ultima fata non variano.
Ciò che dobbiamo chiederci è il perché nelle due versioni qui sopra citate le reazioni dei sovrani sono le stesse. La regina non appare preoccupata per la predizione della fata al contrario del re che per preservare la bambina ordinò che tutti i fusi del regno fossero bruciati. La bambina fiorì e giunse il suo quindicesimo compleanno, ed un giorno approfittando dell’assenza dei genitori esplorò il castello fino a giungere a una vecchia torre. Salì la stretta scala a chiocciola e giunse in una stanza dove un’anziana era intenta a filare, la fanciulla incuriosita chiese cos’era quello strumento ma appena lo toccò ella cadde in un sonno profondo simile alla morte.
La chiave del quesito è l’età in cui la ragazza si punge col fuso: quindici anni.
In passato, l’età di quindici anni coincideva con l’inizio delle mestruazioni. Le tredici fate dei Grimm ricordano i tredici mesi lunari, antica divisione dell’anno. È noto che le mestruazioni avviene, tipicamente, con la frequenza di ventotto giorni caratteristica dei mesi lunari. «Così, il numero delle dodici fate buone a cui si aggiunge una tredicesima cattiva indica simbolicamente che la ‘fatale maledizione’ si riferisce alla mestruazione».
Ecco spiegato il perché la regina, in tutte le versioni, non appare preoccupata per la predizione della fata. Giunti a questo punto dobbiamo chiederci perché la maledizione si incentri sulla tessitura. La filatura e la tessitura erano considerate occupazioni tipicamente “domestiche”. Tale occupazione però si lega a quella delle Moire greche (dette Parche dai latini). Esse sono le dee del destino, in Omero la Moira è una sola, ma già in Esiodo sono tre: Cloto, la “filatrice” della vita, Lachesi la “fissatrice della sorte” toccata all’uomo ed Atropo, la “irremovibile” fatalità della morte. Sono figlie di Zeus e di Temi, secondo un’altra genealogia sono figlie della Notte. Esse presiedono ai tre momenti culminanti della vita umana: nascita, matrimonio, morte, non è un caso che nelle fiabe ritornino in veste di fate legate al fuso, il filo, il tessere e il disfare, la morte per aver toccato il fuso sorte che spetta alla giovane principessa, nonostante gli sforzi del padre per impedirlo.
Ciò che non si può impedire è la fatidica effusione di sangue quando la fanciulla arriva alla pubertà. Il finale ben lo si conosce di questa storia ma ciò che non si sa è il suo risvolto psicologico.
Rosaspina: la quiescenza pre-adolescenziale
«L’armonioso incontro del principe e della principessa, il loro reciproco risveglio, è il simbolo di quello che la maturità implica: non soltanto un’armonia con se stesso ma anche con l’altro. Dipende dall’ascoltatore se l’arrivo del principe al momento giusto è interpretato come l’evento che provoca il risveglio sessuale o la nascita di un Io superiore; il bambino probabilmente comprende entrambi questi significati.» (Bettelheim, 2015)
Secondo Bettelheim il tema centrale delle tre versioni è l’adolescenza, periodo di rapidi mutamenti, di completa passività e torpore alternati ad un comportamento volto a mettere alla prova se stessi. Nell’adolescenza e nelle fasi di transizioni della vita sono necessari periodi di attività e di quiescenza perché possano determinarsi condizioni favorevoli a un coretto sviluppo. Sole, Luna e Talia, La bella Addormentata nel Bosco e Rosaspina narrano del periodo d’inattività, interpretato dal sonno durato cent’anni, che si ha durante i primi anni della pubertà, fino al momento di attività, cioè quando la fanciulla del racconto si desta dal suo sonno, «ma appunto eran passati i cent’anni ed era venuto il giorno che Rosaspina doveva ridestarsi», dopo aver raccolto le proprie forze nella solitudine essi devono ora diventare se stessi.
A cura di Clara Sorce
Comments