Nell’era del digitale la nostra sfera personale è solida e sicura quanto una bolla di sapone in un parco giochi per bambini, fragile e disarmata davanti a troppi pericoli e dita pronte e sfiorarla.
Era l’aprile del 2020, piena pandemia nazionale, ognuno di noi in diretta dalla propria abitazione risentiva quasi in loop le notizie che riecheggiavano in quei giorni. La monotonia da “notizia Covid-19” sembrava non avere fine, poi un destro, uno scossone ci ha fatto quasi svegliare, come se la stazione radio che sentivamo da ore fosse stata cambiata. I nostri divani diventavano la platea di uno spettacolo segreto “Dentro il più grande network italiano di revenge porn, su Telegram” così intitolava wired.it, che dopo una lunga inchiesta nella rete virtuale di Telegram, ha reso pubblici 21 canali tematici collegati, con oltre 43mila iscritti, per circa 30mila messaggi scambiati in un solo giorno. Stupri virtuali di gruppo e pedo-pornografica, camere dove dare sfogo ad atti di violenza e scambio di materiale che avveniva, grazie a una fitta messaggistica online che mercificava e rendeva di pubblico dominio la sfera personale di centinaia di bambine e ragazze alla soglia dei 18 anni. Telegram infatti, rispetto ad altre applicazioni o social permette di mantenere un certo anonimato, per cui in questo modo si crea un terreno fertile per ex alla ricerca di vendetta, per pedofili o semplicemente per uomini che usando un linguaggio denigrante verso le donne, ricercano una virilità aderente ai canoni che forse solo nel medioevo potevano considerarsi come attuali o contemporanei. L’anonimato però in questo caso ha subìto qualche crepa, perché il gruppo hacker Anonymous, dopo essere venuto a conoscenza dei fatti, ha deciso di intervenire in difesa delle vittime coinvolte, l’obiettivo degli hacker era quello di identificare gli utenti dei gruppi Telegram incriminati. “Se non possiamo difendere le vittime, state pur certi che le vendicheremo”, affermava il gruppo hacker.
Di casi come questi, ma con un bacino più ristretto, oggigiorno è molto comune sentirne parlare. Il caso della giovane maestra di Torino che era stata licenziata, dopo che l’ex fidanzato ha pubblicato sulla chat del calcetto alcune sue foto e video intimi, ha aperto grandi dibattiti e discussioni molto accese, anche contrastanti. Questo episodio infatti, ha sicuramente messo sotto l’occhio di bue la società italiana odierna, il sentirsi quasi in dovere e giustificati nel fare la morale su scelte che non ci riguardano personalmente, il sostegno latente a una cultura patriarcale che è ancora fin troppo radicata e che ci porta, come anche in questo caso, a imputare come colpevole chi forse ha “abusato della propria libertà”, perché “doveva aspettarselo”.
Non è un caso se si continua a trattare il tema del Revenge porn secondo una declinazione prettamente femminile. Secondo infatti i dati raccolti da uno studio del Corriere della Sera, si riporta che l’81% delle vittime siano donne, molto spesso adolescenti ancora minorenni, con questo però non bisogna sminuire quel 19%. Tutti hanno una dignità uomo o donna che sia e, il revenge porn oltre che essere un reato, è un atto spregevole, che spoglia la vittima nel suo lato più intimo, in una arena pronta a giudicare, a calpestare la reputazione di chi troppe volte è stata definita come “ingenua”, dando poco peso invece al regista della scena messa in atto.
Prime forme di tutela in Italia sono state introdotte solo recentemente, con la legge 69/2019 all’art. 10, e con l’art. 612 ter del codice penale rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, al secondo comma dello stesso articolo si estende la medesima pena a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, a sua volta compie l’azione di inviarli, consegnarli, cederli, pubblicarli o diffonderli non solo “senza il consenso delle persone rappresentate”, ma anche con la finalità di recare loro nocumento (dolo specifico).
Criticità però che subito salta all’occhio riguardo tale normativa, è che il reato diventa punibile solo a querela della persona offesa e non anche d’ufficio, rendendo ancora più macchinoso e complesso per la vittima incriminare il colpevole, dato il peso sociale con cui di colpo si trova a dover combattere, fatto di sensi di colpa, frustrazione, rabbia e vergogna. Ancora più opinabile la questione del tempo messo a disposizione della persona offesa al fine di proporre la querela, di soli sei mesi, decorrenti presumibilmente dal momento in cui il soggetto viene a conoscenza delle foto e/o video condividi a sua insaputa.
I tribunali, come palazzi di giustizia, del resto però possono essere solamente in parte considerati i responsabili nel far sì che la legge possa essere rispettata e che chi abbia commesso la violazione, l’illecito, sconti la sua pena. Il tribunale più difficile da accettare e che probabilmente è il più spinoso con cui convivere è la tossica voglia delle persone di innalzare la propria opinione come l’unica in grado di cogliere una verità assoluta delle cose e dei fatti che forse gli altri stupidamente non sono in grado di cogliere. La spietata ricerca di rimproverare qualcuno per sentirsi migliori di questi indica una prima falla in un sistema come la società che tenta di presentarsi come la migliore possibile, all’avanguardia e in continua mutazione, ma come si può pretendere di cambiare se non si abbandona la censura e il tabù che è stato il velo di Maya che ha coperto i nostri pensieri e la mente fino ad oggi? È questo l’atteggiamento che in primis dovrebbe cambiare, il motore di ricerca, la chiave di lettura comune che dovrebbe essere il punto di partenza per una giustizia più agevole e semplice, una convivenza tra individui libera e priva di strutture mentali che appesantiscono e che sono prive di contenuto. A cura di Federica Carlino. Immagine di copertina: ac.draft - Instagram
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