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QUANDO IL POTERE ABBRACCIA UN PALLONE

Lo ammetto, ultimamente parlo spesso di dittature. Ma ci sono degli argomenti che catturano la mia attenzione come quella fetta di cassata esposta in vetrina: se il desiderio mi entra in testa, non c’è verso che se ne vada. Non prima di averla mangiata.

La Storia andrebbe raccontata da più punti di vista, perchè cambiare prospettiva è il miglior modo di comprendere. Così ho scelto due episodi per raccontare come il potere della politica corteggia quello del calcio. Due storie, due punti di vista: quello di chi resiste e quello di chi comanda attraverso una sfera di cuoio. Qualche giorno fa mi è caduto l’occhio su una vicenda, quella di Carlos Caszely, calciatore cileno che ha speso anni della sua carriera a ribellarsi alla dittatura di Pinochet. E ho appena finito di leggere uno dei romanzi di Sepulveda, che guarda caso racconta in parte degli anni della dittatura (1973 – 1990), dei desaparacidos e della ribellione del Movimiento de Izquierda Revolucionaria.

E’ la mia fetta di cassata, ce l’ho già pronta su un piatto. E comincio da qui.


“El Rey del Metro Cuadrado” e Pinochet

Caszely è solo uno degli esempi di calciatori che hanno fatto della loro posizione privilegiata un mezzo per comunicare messaggi importanti, così come ha fatto la politica, interessandosi sempre più di uno sport così coinvolgente da diventare un linguaggio universale. D’altro canto, da quando è nato e si è diffuso “The Beautiful Game”, credo sia capitato a qualsiasi essere umano di tirare un calcio, anche solo una volta e anche solo per caso, ad un pallone che passava tra i piedi.

Carlos Humberto Caszely Garrido: attaccante brevilineo, gambe possenti e petto gonfio (per la sua fisionomia calcistica, mi ricorda mio padre) , cosa che gli permette di essere un rapace degli ultimi 15 metri. Una sentenza in area di rigore, al punto che, dopo poco tempo dall’esordio con la maglia del Colo- Colo, iniziano a chiamarlo “ El Rey del Metro Cuadrado” (o “El Dueño de la Area Chica”, “Il padrone dell’area piccola” , che dir si voglia). Carlos è figlio di un ferroviere di origine ungherese e di una ragazza della middle- class cilena, sin da giovane è dotato di una spiccata intelligenza, pari solo alla sua vena polemica.

Al liceo fa sua un’ideologia politica di sinistra, imbevuta di princìpi progressisti; è un fervido sostenitore di Salvador Allende, ma ciò gli si rivolterà contro a partire dall’11 Settembre 1973, giorno in cui il golpe militare di Pinochet cambia gli assetti politici del Paese. E’ un elemento scomodo per il regime, perché è uno che si schiera, fa sentire la sua voce: i servizi segreti lo seguono sempre, un suo gesto simbolico avrebbe una risonanza mediatica rilevante. Che alla fine arriva: nel ’74 Pinochet si presenta davanti a tutta la Roja e ai media per fare i migliori auguri a giocatori e staff che affronteranno l’URSS nello spareggio per un posto al Mondiale in Germania Ovest. Pinochet passa davanti a tutti che, più o meno contenti, gli stringono la mano con deferenza. Tutti, non Caszely, che guarda negli occhi il generale senza allungare la mano. Il generale passa oltre. Il gesto lascia annichiliti tutti i presenti.



Per chi volesse approfondire le doti tecniche del delantero cileno


Sarà poi trattato come un esiliato, vittima di una forma di ostracismo moderno quando, all’esordio contro i padroni di casa, viene espulso per un fallo di reazione. Il primo espulso nella storia dei Mondiali di calcio. Se vogliamo vederla così, è anche questo un primato, che però non gli serve ad allontanare le critiche infamanti che lo etichettano come traditore della patria e colpevole di vilipendio sportivo.

Ma Caszely è intelligente e conosce il valore della pazienza. Il tempo gli darà modo di far dimenticare quell’errore sportivo e di metterlo di nuovo faccia a faccia con Pinochet. Siamo nel 1985, un Carlos trentacinquenne si presenta alla Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago. E ci si presenta con una cravatta rossa, la cui scelta non è ovviamente casuale. Incontra di nuovo il generale, di nuovo non gli stringe la mano, di nuovo lo guarda fisso negli occhi. Scambio di battute, sibilline e velenose come il morso di un ragno eremita:

« Lei porta sempre la cravatta?»

« Si, non la tolgo mai. La tengo dalla parte del cuore.»

Pinochet mima il gesto delle forbici, in stile “Te la taglierei, e non solo quella”. Caszely rimane immobile, ma è soddisfatto.

L’ultimo atto si consumerà tre anni dopo, quando reciterà in uno spot televisivo anti-Pinochet in pieno referendum nel 1988, quello per conferire al generale altri 8 anni di comando. E’ stato il pugno del K.O ad un avversario ormai stremato.


Il baffuto ex attaccante recita lo spot assieme alla madre, vittima delle torture del regime


“25 miliones de argentinos jugaremos el mundial”

Spostiamoci di circa 1500 km , quelli che separano Santiago e Buenos Aires, per raccontare la storia e il calcio da un altro punto di vista. Non quello di chi si ribella, ma quello di chi il potere lo impone. I Mondiali del 1978 sono unanimemente indicati come uno dei paradigmi della competizione truccata, al punto da essere definito dallo scrittore inglese Jimmy Burns “il circo sportivo più politicizzato dai tempi delle Olimpiadi del 1936”. A differenza del caso cileno, il golpe militare del 24 Marzo 1976 che mette al potere il generale Videla con il nome di Proceso de Reorganization Nacional non cambia radicalmente la situazione: dopo la morte di Peròn, sua moglie Isabelita (nominata prima vicepresidente) passa al governo del Paese e dà subito inizio ad una dura repressione degli oppositori, una sorta di anticamera del fenomeno dei desaparecidos argentini. Ma su Isabela esercita un’influenza determinante Juan Lopez Rega, un “burattinaio”, l’equivalente argentino di Licio Gelli (entrambi, massoni della P2, saranno infatti in stretti rapporti). I Mondiali del ’78 li ospita proprio il Paese albiceleste ,sono l’occasione perfetta per far conoscere al mondo il suo valore. Le alte sfere del regime non sembrano capirne molto di calcio, ma intuiscono il potenziale comunicativo del fùtbol per il mondo intero e, soprattutto, per gli argentini. Il loro rapporto con quella sfera di cuoio è ben più viscerale del nostro, si eleva al punto da eguagliare quello dei brasiliani: una questione di onore personale, una problematica sociale e politica. Diventa davvero religione, se si pensa che il popolo argentino, come tutti quelli che si sentono “eletti” in qualcosa, pensa che Dio sia dalla loro parte. Se solo si facesse vedere un po' più spesso, visto che hanno vinto solo 2 Mondiali.

Breve parentesi: per quanto riguarda i brasiliani, la cosa diventa una questione di vita o di morte. Non si può dimenticare il cosiddetto Maracanazo del 1950, la sconfitta per 1 a 0 in finale dei verdeoro padroni di casa per merito dell’uruguagio Schiaffino. Alcuni brasiliani si suicidarono dopo quella delusione, altri morirono d’infarto. Né, personalmente, posso dimenticare il Mineirazo del 2014, la disfatta dei verdeoro (nuovamente padroni di casa) in semifinale per 7 a 1 per mano della Germania, poi campione. Io ero lì a Belo Horizonte, a fine partita mi sono affacciato dal balcone assieme ai miei amici brasiliani, che non sembravano poi tanto sorpresi nel vedere loro connazionali bruciare per strada la bandiera che recita “Ordem e Progreso”. Una cosa che è invece rimasta impressa nella mia mente.

Ma torniamo al 1978: Videla deve preparare un mondiale e trasformarlo in un’occasione di legittimazione del proprio potere. Per farlo, ha bisogno di dare “una lavata di faccia” al Paese. Le madri dei desaparecidos, che ogni giovedi sera sfilano in cerchio sotto la Casa Rosada di Buenos Aires, vengono intimidite da militari e hooligans assoldati ad hoc. Viene lanciata l’Operazione El Barrido, con cui vengono rasi al suolo quartieri malfamati della capitale, mentre a Rosario viene eretto un muro con belle case dipinte per nascondere la povertà delle periferie. Viene fomentato un clima di estasi generale per distrarre l’opinione pubblica internazionale dai crimini atroci commessi, al grido di “ 25 milioni di argentini giocheranno la Coppa del Mondo”. Vengono arrestate cica 200 persone al giorno per evitare che possano parlare con giornalisti stranieri di ciò che accade realmente. In tutto questo, la nazionale albiceleste è il fulcro della buona riuscita del Mundial. Deve fungere da catalizzatore di consenso e, per fare questo, ha una sola opzione: vincere.

A questo proposito, nella memoria degli amanti del calcio rimane impressa la cosiddetta marmelada peruana: bisogna premettere, infatti, che nel 1978 l’organizzazione della competizione prevede due fasi a gironi, l’ultima delle quali decreta direttamente le finaliste. L’Argentina deve vincere contro uno dei Perù migliori della sua storia con almeno 4 gol di scarto per superare il Brasile, andare in testa al girone e qualificarsi alla finale. Mission impossibile? Non con le dovute accortezze.

Rosario non è una città qualunque: è la capitale accademica del gioco, un posto che trasuda calcio, dove si discute di fùtbol come nei salotti parigini del ‘700 si dissertava di Illuminismo.

Ora, il portiere del Perù è Ramon Quiroga, rosarino naturalizzato peruviano, tifoso del Rosario Central. E dove si gioca la partita? Proprio al Gigante de Arroyito, lo stadio del Central. Belle le sliding doors. Beh, più o meno, perché la vita di Ramon cambierà per sempre, e non proprio in meglio. Una delle incognite del CT biancorosso Calderon riguarda proprio l’opportunità di schierare Quiroga. Dubbio fugato dallo stesso generale Videla, che assieme al Segretario di Stato americano Henry Kissinger scende negli spogliatoi del Perù pochi minuti prima del match, pronunciando più o meno queste parole:

«Signori, volevo solo dirvi che quella di stasera è una partita tra due paesi fratelli, e in nome della fratellanza latinoamericana, vengo a manifestarvi il mio desiderio che tutto vada bene».

Ok, gioca Quiroga. Non sarà mai abbastanza chiaro l’intreccio di interessi e accordi sottesi alla buona riuscita della partita. Alcuni sostengono che non vi fu alcuna combine, dato che l’Argentina aveva dominato per quasi tutto il match. I più, invece, sostengono che il singolare tempismo con cui il governo argentino aveva regalato, prima della partita, un milione di tonnellate di grano e una linea di credito di 50 milioni di dollari al Perù fosse un segno inequivocabile di un accordo. La linea di credito alla squadra, inoltre, sembrerebbe provenire direttamente dai fratelli Gilberto e Miguel Rodriguez Orejuela, a capo del cartello di Cali, come afferma il figlio di Gilberto, Fernando (F. R. Mondragòn, El hijo del Ajedrecista 2). In aggiunta a tutto ciò, il bus che trasporta la nazionale peruviana compie appositamente un percorso molto più lungo di quello necessario per raggiungere El Gigante de Arroyito, durante il quale viene bersagliato dagli insulti dei tifosi argentini. L’autista, non soddisfatto, fa finta di non sapere quale sia l’entrata giusta per lo stadio, facendo passare il bus vicino l’ingresso di una delle tribune popolari, con dose addizionale di pugni, sputi e insulti. I peruviani stanno percorrendo il loro personalissimo Gòlgota. Inutile dire che la partita, seppur bloccata per buona parte del primo tempo, finirà 6 a 0 per l’albiceleste.



Ad una prima occhiata, i gol sembrano più o meno segnati senza “aiutini”. Ad una prima occhiata…


In finale, per completare la missione, bisogna battere l’Olanda. Si, quella del portiere Jongbloed col numero 8, di Neeskens, dei fratelli Van de Kerkhof e di Haan. Ma non di Cruyiff, che non è partito per la spedizione argentina. L’albiceleste entra in campo volutamente in ritardo prima del calcio d’inizio, lasciando gli Oranje in balìa di un Monumental di Buenos Aires pieno di argentini incazzati. Con Videla e le due “ombre” Licio Gelli e Lopez Rega in tribuna d’onore ad osservare compiaciuti lo spettacolo. Non dev’essere il massimo. La partita, tirata, sarà risolta dall’uomo-immagine della Selecciòn, Mario Kempes, un 10 atipico, quasi anacronistico per i canoni dell’epoca: alto, fisico, con ottime doti tecniche, si inserisce benissimo nel 4-3-3 divertente e organizzato su cui il CT Menotti ha costruito la squadra. Menotti ha simpatie comuniste, si dice: ma questo, alla junta, non importa più di tanto. Non più. L’Argentina è campione.




Dietro tutto questo splendido palcoscenico, dietro le quinte, ci sono le torture, i voli della morte e i desaparecidos: a 700 metri dal Monumental sorge l’ESMA ( Escuela Mecanica de la Armada), uno dei numerosi campi di concentramento.

I prigionieri ascoltano la partita alla radio e sentono le urla dal vicino stadio. Al gol di Bertoni, la gioia è tanta che i torturatori decidono di portare alcuni di loro in macchina a festeggiare in giro per la città. Alcuni riescono a trovare la lucidità di fuggire, altri rimangono folgorati dall’euforia generale. Se ne pentiranno.

La teoria più (falsamente) accreditata per giustificare l’indifferenza di governi nazionali, federazioni di calcio

e FIFA a quei crimini compiuti è che “nessuno sapeva”.

Un atteggiamento omertoso che però viene tradito da quanto si viene a sapere a proposito della FIFA: João Havelange, allora presidente, aveva assicurato a Videla l’assegnazione dei Mondiali a patto che venissero liberati i due figli di importanti politici brasiliani, accusati di essere sovversivi.

Ci sarebbero tanti altri esempi di come la storia e la storia del calcio si siano prese per mano e abbiano percorso insieme XX e XXI secolo. Ma per ora va bene così.

Nonostante le sue bruttezze, il fùtbol è sempre meraviglioso.


A cura di Mattia Crispino.

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