L’altra notte ho fatto un sogno che ho imparato a riconoscere, perché frequente. Sono nel deserto, mi inginocchio. Faccio scorrere la sabbia tra le dita e tutto ritorna come prima. Intorno a me il nulla, prima di me il nulla, nient’altro che sabbia. E’ curioso come la soluzione di questo sogno, che altri avranno già afferrato, mi è giunta soltanto tramite l’interpretazione di un fatto diverso, vero poiché reale.
Il tema di questi ultimi giorni è stato, come ormai tutti sanno fin troppo bene, la crisi di governo. L’ennesima, verrebbe da dire; la sessantaseiesima nella storia repubblicana, per essere più precisi. Ho letto numerose, infinite, più o meno intricate riflessioni: amici su Facebook, giornalisti in Tv, meme su Instagram, vocali su Whatsapp. Mancano all’appello le “chiacchiere da bar”, ma in tempi di pandemia nessuno se ne stupisce. Eppure mi chiedo se, questa volta, ce ne sarebbero state. Il motivo del dubbio è duplice: uno personale, l’altro meno.
Il primo è che credo di aver dimenticato in cosa consista il quotidiano, quello che una volta era “il solito, grazie”. Il secondo che probabilmente pochi ci hanno capito veramente qualcosa, al punto da avere non un’idea ma una idea. Una e una sola; o quasi, insomma. Intendo che tutto si è detto, insieme al suo contrario, ogni giorno, da tutte le parti. Intendo che ho visto per l’ennesima volta delle ferree posizioni sostenenti o meno le azioni e le motivazioni che hanno portato alla crisi, con un’attenta e sicura determinazione delle parti, degli “artefici” e delle “vittime”. Ancora una volta il mio portatile mondo virtuale si è trasformato in un pregiatissimo salotto di oracoli, puntuali e competenti analisti dello spread, almanacchi viventi delle politiche europee, virtuosi della Realpolitik, esperti giocatori di Risiko e della briscola in 5, dove non sai mai chi è il compagno ma puoi solo sperare nella sua astuzia.
Adesso, tra chi auspica un unico grande governo solidale e chi confida nella deriva autoritaria, mi ritrovo, come ogni giorno ormai, a fare un'osservazione, che questa volta voglio condividere.
Se si andasse ad un voto imminente, come da qualcuno è stato chiesto, io non saprei che pesci prendere. Non è solo la paura di essere tradito o il non rivedermi in nessuna posizione: è la stanchezza, la disillusione, di cui purtroppo sento di non avere tutta la colpa.
Non si tratta dell’arrendersi per non rischiare di inciampare, non si tratta di menefreghismo: il problema è che vedo solo retorica. Non vedo programmi, non vedo manifesti, non vedo partiti.
Vedo uomini, dalle mutevoli alleanze, raccontati da giornalisti dalle mutevoli opinioni.
Vedo un mondo di adulti a cui mi affaccio e a cui non voglio somigliare, una buona parte della destra che dice di parlare direttamente agli “operai” (ma una volta non votavano comunista?), ai “lavoratori”, con ripetute azioni di sterile, facile, cinepanettonica propaganda; una sinistra che non è in grado di farsi comprendere né di comprendere sé stessa, sporca di chi con lei poco o nulla ha a che fare, quando non inopportuna e quasi anacronistica; un movimento fortemente compromesso che tenta di giustificare i propri errori senza riconoscerli, di mettere delle pezze senza riformarsi, divenendo più “partito” di quelli che, all’inizio della sua storia, sembrava volesse superare.
In tutto questo, c’è speranza. Non è una speranza che vedo negli occhi di tutti, né quella di cui si legge all’inizio dei nuovi governi.
Non prendo posizione su quello che sembra essere il futuro governo non per diffidenza, ma per ignoranza. A differenza degli oracoli prima citati, non sento di poter fare alcuna previsione. Non sento nemmeno l’urgenza di dire “Ho stima della persona”, come da tutte le parti si sta dicendo sul Presidente incaricato, perché riduttivo e non puntuale. E non la sento per diversi motivi: la ragione di fondo è che non sono in grado di comprendere a pieno, in tutta sincerità, le mosse che quest’uomo ha fatto in passato, soprattutto da Presidente della BCE. Non sono un esperto di economia, tutt’altro. Di quello che non capisco posso certo avere fiducia, o venerazione (e, devo ammettere, quest’ultima è diffusa, da quello che leggo, soprattutto sui giornali, meno sui social). Certo tutto può essere tranne che “stima”, perché sarei un ipocrita nel dirlo, sarebbe banale, gratuita e non per questo sincera.
In tutto questo, quindi, non è che le mie idee siano meno confuse del presente, perché vivono in esso. Sento però che non tarderanno a prendere forma.
Ricordo che, nel primo tema che feci alle superiori, dove era stato chiesto di presentarci, avevo scritto la mia idea sul mondo e sui miei sogni. Avevo 14 anni: penso si possa immaginare quello che scrissi. La mia professoressa, segnando in rosso quel pensiero, mise un simpatico ma lapidario commento accanto: “Bello, ma utopistico”. Ci misi un po’ a capire che aveva ragione, e un altro po’ ad accettarlo. Avevo appena una lieve idea di cosa fosse un’utopia, ma credevo di possedere delle idee, e probabilmente non ne avevo; molte le ho dimenticate. Adesso non credo di averne molte, invece. Probabilmente, però, le ho. Altrimenti non avrei mai deciso di iniziare a scrivere qui. Questo vuole essere un anelito in un confuso presente, un mio manifesto personale, dato che sono stato bravo a dire della mancanza di progetto dietro la politica che vedo.
- Riconoscere le cose che non so, e impararle. - Creare l’alternativa, se quello che vedo non mi soddisfa, per quanto mi è possibile. - Tacere, quando è il momento, ma non affidarmi al silenzio. - Non dimenticare che nessun uomo è un’isola. - Riconoscere alle parole la loro puntualità.
Comunque l’ultima notte è stata diversa. Ho preso finalmente atto di quello che il mio sogno voleva dire, e sono felice di aver impiegato quasi meno di una vita per capirlo: raccolgo la sabbia, scivola tra le mie mani. Stavo modificando il deserto.
A cura di Enrico Bellomo
Immagine in copertina: R.Guttuso, "Comizio di quartiere", 1975
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