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Immagine del redattorevio148

IL NOSTRO POVERO FATALISMO

Borges sosteneva di essere più orgoglioso delle pagine che aveva letto che di quelle che aveva scritto. A me capita qualcosa di simile; non provo particolare piacere nell’avere ragione, ma godo quando ho torto. Forse perché non ci sono abituato. Questo è il resoconto di un mio errore.

Una premessa: vengo dal sud, e per me il movimento è sempre stato in verticale, verso l’alto. Per andare a scuola salivo ad Agrigento; per l’università, a Palermo. Non ho mai preso un aereo che non andasse verso nord. Vengo dal fondo dell’Europa, dell’Italia, del Meridione, e perfino della Sicilia. E non sto parlando soltanto di geografia, ma anche di tutte quelle mappe e classifiche dove la statistica e l’economia si incontrano, e la qualità della vita diventa un sinonimo del PIL e del tasso di disoccupazione. Vengo dal sud, e sono sempre stato un pessimista per ragioni matematiche; mi è sempre sembrato molto improbabile che le cose andassero come volessi, considerata l’abbondanza di scenari alternativi e terribili. Forse sono un pessimista perché sono cresciuto guardando al mondo dal basso verso l’alto, oppure perché mi hanno sempre ripetuto che i siciliani sono pessimisti. E per la maggior parte della mia vita sono stato circondato da siciliani. Siciliani erano i miei compagni d’università, che ora sono i miei amici.

Una delle conseguenze del cameratismo è la tendenza a creare degli argot, dei codici oscuri e involontari che diano l’illusione dell’intimità e dell’appartenenza. Con questi amici, avevamo sviluppato un gergo incomprensibile per i non iniziati, ed una delle formule della nostra nuova lingua era l’espressione “speriamo”. Lo “speriamo” non c’entrava nulla con la speranza, era un rassegnarsi al fallimento. “Com’è andato l’esame?” “Speriamo” “Ho conosciuto una ragazza” “Speriamo”. Funzionava anche come aggettivo; una persona dalle scarse capacità mentali era “uno un po’ speriamo”, un problema irrisolvibile “una situazione speriamo”. In Islanda, dove vivo ora, ho scoperto con orrore un’espressione opposta, Þetta reddast, che significa “si sistemerà”. Tutto andrà bene.

Noi pessimisti guardiamo all’altra metà dell’umanità con stupore, disprezzo, e forse invidia; come se stessimo guardando dei cani distesi sotto il sole. Tolleriamo la loro serenità, aspettando il momento in cui avremo il piacere di consolarli. Quello che stentiamo a sopportare, è quando hanno ragione loro. L’Islanda è stato uno dei paesi, insieme alla Svezia, ad avere adottato le misure più blande per contrastare la pandemia, almeno in termini di limitazioni alla libertà personale. Mentre in Italia le persone venivano multate perché non facevano abbastanza spesa, o perché ne facevano troppa, qui la vita continuava quasi identica. Eccetto che per la chiusura di università, cinema, e palestre, le persone erano libere di circolare ed incontrarsi rispettando poche regole.

Questo non mi preoccupava; forse perché sono sempre preoccupato, oppure perché mi ero imposto un isolamento rigoroso, reso tollerabile dalla compagnia di pochi amici che avevano preso precauzioni simili. Aspettavamo l’apocalisse, guardando da dietro i finestrini della macchina gli idioti ignari di quello che li aspettava. Ero sicuro che questo paese d’ottimisti avrebbe pagato per la sua tranquillità, per le feste a cui venivo invitato e non andavo, per le famiglie che passeggiavano in centro. Oggi, con poche decine di casi ed una mortalità dello 0.5%, devo ammettere che sbagliavo.

Lo scopo di questo articolo non è spiegare perché le cose siano andate così, non sarei in grado di farlo e non mi interessa. Piuttosto, questo è un avvertimento ai pessimisti: a volte hanno ragione gli altri. Non ho mai pensato che tutto andrà bene, e continuo a non farlo. Però, dopo questa piccola lezione, quando mi abbandono a tessere tutte le possibili catastrofi che ha in serbo il futuro, non riesco più a ignorare il sospetto che potrei anche sbagliarmi.

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