top of page
Cerca
Immagine del redattoreDoriana Bruccoleri

POST PANDEMIC FASHION: l’insostenibile industria della moda

Il Coronavirus svela una volta per tutte l’estrema insostenibilità di uno dei modelli di business basato sullo sfruttamento delle risorse ambientali e umane: la Fast Fashion. L’industria della moda deve ridimensionarsi e cambiare rotta. Anche il nostro modo di fare shopping.


L’attuale pandemia ha mandato in tilt l’economia mondiale, smascherando le criticità (risapute fin dall’800) del modello capitalista e del consumismo sfrenato di cui siamo vittime e carnefici. Tentando di vedere il lato positivo, questa crisi offre l’occasione di gettare le basi per una industria più equa e sostenibile. Ma cosa c’entra la moda in questo discorso? No, non faremo nessuna previsione sulle prossime collezioni di mascherine paillettate, t-shirt con le frasi sulla pandemia o stampe fluo con pattern del Coronavirus. Quando si parla di moda, purtroppo, è sempre presente un’aura di frivolezza che deve necessariamente svanire se si vuole valutare il fenomeno in tutta la sua complessità. La moda è una forza importante dal punto di vista storico ed economico e la consapevolezza del suo impatto socio-ambientale è il primo passo per un ripensamento totale di questo sistema distruttivo. Perché distruttivo? Perché la moda è l’industria più inquinante al mondo, seconda solo a quella petrolchimica.


Siamo overdressed

Da un paio di decenni a questa parte, il mondo della moda ha viaggiato verso un’unica direzione: massimizzazione dei profitti senza ritegno a qualunque costo (in realtà bassissimo per loro!) facendo leva sul nostro desiderio di possesso che ci ha abituato a un modo bulimico di fare shopping. Si è imposto il modello della Fast Fashion, una strategia di produzione di abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti e con un ricambio di collezioni in tempi brevissimi (H&M, Zara, Primark, ci siete?). Una moda “usa e getta” dalle importanti conseguenze: rivendere abbigliamento a basso costo, significa produrlo a basso costo, e produrre a basso costo significa non dare importanza a molti aspetti della produzione.

Quelli ambientali ed etici.


Danni ambientali

  • immensi sprechi di acqua (servono 2.700 litri di acqua per una sola t-shirt)

  • immissioni di CO2 durante la produzione e il trasporto della merce

  • utilizzo di sostanze tossiche per l’ambiente e le persone (vedi l’iniziativa Panni Sporchi di Greenpeace)

  • produzione spropositata di tonnellate di vestiti e i relativi scarti che non vengono smaltiti poiché realizzati con tessuti non riciclabili (il poliestere, per esempio, derivato dal petrolio)


Problemi etici

  • le pessime condizioni dei lavoratori sottopagati

  • lo sfruttamento del lavoro minorile

Per non dimenticare: gli scandali che coinvolsero Levi’s nel 1992, Nike nel 1996, Adidas nel 1998 e la tragedia del crollo del Rana Plaza in Bangladesh, a cui seguì la morte di 1.136 lavoratori pagati con meno di 30 euro al mese per cucire (i nostri) vestiti 12 ore al giorno. Da questa catastrofe è nata Fashion Revolution un movimento no-profit che cerca di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande sui vestiti che comprano e indossano. Le multinazionali dei grandi brand hanno il loro “motore” nelle fabbriche collocate nei paesi in via di sviluppo (Bangladesh, Pakistan, Vietnam) in cui esiste un enorme vuoto normativo che regoli il lavoro nel rispetto dei diritti umani. È proprio su questi lavoratori che si riversano le gravi conseguenze economiche del Coronavirus.

«La pandemia ha messo a nudo la fragilità di un modello economico basato sulla strozzatura dei costi e sulla non sostenibilità. Ma in questa strozzatura ci sono le persone e le loro vite galleggiano nell’incertezza»

(Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti)


Cosa sta succedendo?

Per via del crollo economico e del forte calo della domanda di abbigliamento, le grandi aziende di distribuzione hanno annullato gli ordini già in fase di realizzazione o addirittura in consegna. Il lavoro degli operai di queste fabbriche a questo punto viene sospeso e rimangono senza stipendio, coperture e assistenza sociale. Come se non bastasse, la certezza che queste imprese riaprano dopo la pandemia non esiste, poiché si tratta di fabbriche prive della forza economica necessaria per sopravvivere.

E’ chiaro che i Paesi a basso reddito non saranno in grado di fronteggiare le conseguenze di questa crisi globale e i governi del capitalismo maturo non sembrano elaborare misure di sostegno per coloro che hanno prodotto gran parte della ricchezza delle loro multinazionali. Per una volta, i governi e i grandi marchi dovrebbero dividersi le responsabilità, piuttosto che i profitti…

Non si può più ignorare cosa c’è dietro la moda e non si può pensare a un futuro senza questo tipo di attenzione. Anche perché, parlando in termini economici, la sostenibilità per le aziende è un vero e proprio investimento. Il consumatore futuro, quello che oggi ha da 0 a 20 anni (Generazione Alpha), è nato in un contesto in cui si parla solo di sostenibilità e per cultura consumerà solo beni prodotti da aziende che se ne occupano. Quindi le aziende che vogliono sopravvivere, in qualsiasi settore, non possono non investire sulla sostenibilità. Questo è il passaggio per cui si può nutrire più speranza.


Il cerchio della moda

Per cambiare il sistema, dobbiamo cambiare la cultura su cui prospera e questa rivoluzione passa anche dagli abiti. In quanto consumatori abbiamo una parte di responsabilità non indifferente: scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo, abbiamo il potere di cambiare le cose. I nostri valori e le nostre abitudini da consumatori dovrebbero essere riformati secondo una concezione circolare dell’economia, piuttosto che lineare. Applicato alla moda, il “cerchio” si traduce in un sistema in cui gli abiti sono prodotti affinché vengano utilizzati e circolino senza sprechi, in modo responsabile ed efficace il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni, per poi poter essere riciclati in sicurezza. Un meccanismo rivoluzionario di sharing economy che possiamo attuare tramite due strategie: il second hand e il fashion sharing.


“Second hand” is the new “new”

Acquistando abiti usati “si chiude il cerchio” e si impara a dare il giusto peso e valore agli abiti, piuttosto che incentivare il vuoto a perdere creato dalla fast fashion. Il second hand è stato una necessità nel Dopoguerra, una tendenza hippy negli anni Settanta, poi un passatempo per gli amanti del vintage, ma adesso è qualcosa di più. Se una volta si trattava di andare a rovistare in cumuli di abiti vecchi (attività divertente da un certo punto di vista), spesso sporchi o di bassissima qualità, oggi sono proprio cambiate le caratteristiche dello shopping di seconda mano. In tutte le città esistono negozietti vintage (vere e proprie boutique), i mercatini (flea market) e negozi dell’usato (thrift shop) e soprattutto ci sono gli store online come Depop o ThredUp, che l’anno scorso hanno chiuso con un fatturato da nove zeri (rimane pur sempre questo l’obiettivo di un’attività commerciale). Questi store online hanno anche la loro “vetrina” Instagram atta a mostrare outfit super cool (Depop, ThredUp, Tunnelvision). Seguire questi account è importante anche per affinare il proprio occhio nello shopping second hand, cosa che però vale anche per gli acquisti negli sfavillanti store fast fashion. Anzi, a dir la verità, i difetti che si attribuiscono agli abiti usati valgono tanto quanto, se non di più, anche per quelli nuovi. Sfatiamo un paio di miti sui capi di seconda mano:

  • sono sporchi

I vestiti si devono lavare SEMPRE, in qualunque caso. Quando compriamo un capo nuovo ignoriamo la sua storia: in quali condizioni igieniche sono stati riposti i rotoli di tessuto di cui è fatto? La pulizia delle fabbriche, dei magazzini, dei mezzi di trasporto? Chi lo ha indossato prima di noi nel camerino? Il capo nuovo ha solo l’illusione della perfezione.

  • sono scadenti

La bassa qualità, in realtà, è una caratteristica imprescindibile della fast fashion prodotta con materiali scadenti, inquinanti e manodopera indecente (come il salario degli operai stessi). Paradossalmente, gli abiti di tanti anni fa sono realizzati molto meglio e sono di una qualità nettamente superiore che ha permesso loro di poter essere ancora in circolazione e adatti a un’ulteriore utilizzo.


È fondamentale però, chiarire una cosa: comprare abiti di seconda mano è positivo a livello etico e ambientale solamente se va a sostituire un acquisto che si farebbe in un negozio di abbigliamento “nuovo”, altrimenti non è che un ennesimo sintomo di consumismo patologico.


Tutti per uno, uno per tutti.

Il fashion sharing è un'evoluzione della moda a noleggio riletta in chiave sharing economy, che permette a tutti di indossare abiti di qualsiasi brand. Gli abiti di sfilata possono essere noleggiati per qualche giorno al 10-20% del prezzo al dettaglio. Ciò che si paga non è il prodotto in sé, ma il suo utilizzo che dipende esclusivamente dalle nostre esigenze. DressYouCan, per esempio, è la prima realtà italiana di fashion sharing: una sorta di Airbnb dei guardaroba, accessibile da ogni punto di vista: economico, fisico e ideologico.

La moda a noleggio, a dire il vero, non è una novità. Chi ha visto Sex and the City – The movie ricorderà l’assistente Louise, una giovane ragazza dalle scarse risorse economiche che indossava una borsa della nuova collezione di Louis Vuitton presa a noleggio. Ricordiamo che il film è ambientato a New York nel 2008. 12 anni fa. L’enorme distanza da certi posti nel mondo non è solo spaziale, ma anche temporale.


A prescindere dalla sostenibilità del nostro shopping, dovremmo fare un passo indietro e riflettere onestamente proprio sul concetto di “acquisto”. La situazione di disagio che stiamo tutti vivendo ha smosso profondamente le nostre coscienze e ci ha obbligati a operare una distinzione tra il superfluo e il necessario.

Un principio da introdurre nel nostro meccanismo di acquisto dovrebbe essere il cost-per-wear: considerare il valore di un capo in relazione a quante volte viene indossato. Quante volte userò questo indumento? I materiali mi soddisferanno? Il prezzo giustifica il valore dell’oggetto? In sostanza tutto sta nel bilanciamento tra quanto si userà un capo (o quanto ci è necessario) e il prezzo che il venditore stabilisce.

Dobbiamo risvegliare il senso critico che il consumismo ha assopito e mentre allunghiamo la mano per prendere l’ennesima t-shirt, chiederci: mi serve davvero?

Comments


bottom of page