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Immagine del redattoreRedazione

PANOPTICON

Un tiro. Inspira. Butta fuori. Il fumo della sigaretta si perdeva leggero nell’aria pungente della mattina di primavera. Le parti di strada ancora dominate dall’ombra delle case facevano salire brividi di freddo, quelle già colpite dal sole, solitario nel cielo terso, abbracciavano Ulysses nel rilassante tepore del chiodo di pelle che si riscaldava. Come ogni mattina, portava Kira a fare la sua solita passeggiata, i suoi bisogni, a godersi un po' di libertà con il suo padrone. E lui, come ogni mattina, rollava il suo drum e guardava l’orizzonte. Respirava, si sentiva vivo. L’aria che saliva dal mare alla collina gli riempiva i polmoni quasi più del fumo che gli rientrava dalle narici. Faceva perdere lo sguardo sulle terre, gialle di futuri raccolti, erose dall’azzurro intenso e limpido del Mediterraneo. Gli si riempivano gli occhi. Kira faceva sentire il suo peso di pastore belga poggiando la testa contro la vita di Ulysses, che si sentiva protetto e confortato da quell’unico affetto espresso senza vincoli. Non c’era più l’obbligo di indossare quelle fastidiose maschere, che le ricerche scientifiche sul virus avevano reso sempre più simili, nella forma, a quelle dei monatti del XVI secolo. Nel ripensare a quei ridicoli e scomodi oggetti, i “dispositivi di protezione”, gli spuntò un sorriso sarcastico “Ah, le mode che tornano...” Eppure non si sentiva a suo agio. Provava la sensazione di avere costantemente uno sguardo addosso, pesante e fastidioso come un cappotto in piena estate. Gli occhi nocciola del cane si voltarono di scatto, seguendo un punto fisso alle sue spalle. «Ma che cazz...». Il ronzio fu seguìto dalla voce meccanica del drone. «Signor Black...». «Dottore, prego. Cominci male, e oggi ho i coglioni girati. » «Signor Black, abbiamo notato che non ha aggiornato Panopticon all’ultima versione. E’ al corrente che non aggiornare l’app sul suo smartphone è punibile con la reclusione da 1 a 3 anni?». Quei droni, con la loro IA sempre più evoluta, erano diventati indisponenti almeno quanto gli agenti in carne ed ossa della NoCon, la squadra speciale creata appositamente per mantenere l’ordine pubblico durante il contagio. Composta generalmente da condannati a morte e reietti di ogni genere, era diventata il braccio del Governo dopo la fine dell’emergenza. Insomma, gente dalle maniere spicce, e con nulla da perdere. Panopticon era una delle armi più potenti a disposizione dell’esecutivo. Sviluppata inizialmente per monitorare gli spostamenti degli utilizzatori al fine di contenere i contagi, dopo la fine dell’epidemia era divenuta un vero e proprio strumento di controllo totale della vita dei cittadini. All’inizio il download era libero, ma nelle fasi finali dell’emergenza un decreto del Governo aveva reso l’app obbligatoria. Il mancato rispetto delle norme del decreto era punibile con la reclusione; il che voleva dire, da alcune voci che circolavano in gran segreto, un biglietto di sola andata per la Villa, la caserma della NoCon che si trovava in ogni centro abitato del Paese. «Non l’ho aggiornata, è vero. Sono senza internet, il 5G non va.» «Trovi un modo, signor Black. Ha 30 minuti di tempo per aggiornarla. E altri 15 per tornare alla sua abitazione ed iniziare a lavorare.» «Altrimenti?» «Torneremo.» Ulysses ci provava quasi un certo gusto nello sfidare quell’autorità, con quella sfrontatezza e quell’irriverenza che, per lui, avevano acquisito il sapore della libertà. Era stanco di quel finto allarmismo, aveva capito il giochetto. I contagi avevano raggiunto da più di un anno il fatidico fattore R0, ma il sistema di controllo degli spostamenti era rimasto. Ormai non esisteva più il lavoro in ufficio, né il weekend. Si lavorava da casa, 7 giorni su 7. Il Paese doveva recuperare il terreno perduto, bisognava essere produttivi. Era un dovere morale far sì che la macchina riprendesse a funzionare dopo che la diffusione del virus aveva gettato nel panico tutta la popolazione. L’economia si era letteralmente fermata, le statistiche avevano registrato una perdita della produzione interna del 10 %, più di quanto stimato qualche mese prima. E non c’era tempo da perdere. Tutti erano chiamati alle armi. Ulysses si mise alla scrivania. Il pc aziendale gli ricordava gli appuntamenti del giorno via Skype e le scadenze delle relazioni. Ma quella mattina non riusciva a rimanere concentrato. Il suo sguardo, perso nei pixel dello schermo, andava alla ricerca di immagini nella sua, di memoria. E aveva trovato lei. Non vedeva Dalilah da mesi ormai. Non ricordava nemmeno i dettagli del suo viso: sembravano perdersi in macchie indistinte nella memoria, come quando cade una goccia d’acqua su un disegno a pennarello. Ricordava però la sua bellezza, i capelli castani, gli occhi verdi, lo sguardo pieno e penetrante. Le labbra carnose, dolci di miele la mattina, dopo la colazione. Ricordava le carezze, il calore del suo abbraccio, del suo respiro quando metteva la testa sotto il suo mento prima di addormentarsi. Ricordava gli occhi languidi, la passione e il sudore. Si erano dovuti allontanare, non era possibile vedersi. I loro quartieri, una volta distanti dieci minuti in bici, sembravano ora lontani come Andromeda e la Via Lattea. Evitare i contatti comportava anche questo, allora era necessario. Ma, con il passare delle settimane, Dalilah era cambiata: sembrava essere lei stessa lontana 23 miliardi di anni luce. Ulysses aveva l’impressione che fosse stata risucchiata da quel vortice di allarmismo che media e Governo avevano alimentato per convincere la popolazione ad osservare le misure di contenimento del virus ad oltranza. Finita l’emergenza, però, si respirava paura tra le persone, un pulviscolo sottile che impregnava i rapporti, o ciò che ne era rimasto. Mantenevano lo stesso una certa “distanza di sicurezza”; meno del metro, ma comunque abbastanza da rendere qualsiasi gesto d’affetto un’intrusione nella propria sfera di protezione personale. Il virus aveva reso le persone più diffidenti. La mente è una macchina per la quale l’aggettivo “complessa” ha il sapore dell’eufemismo: anziché riflettere sull’importanza dei piccoli gesti di affetto quotidiani, le persone avevano sviluppato distacco, sospetto e paura, impercettibile nei sorrisi di circostanza, ma latente. E cosi era diventata Dalilah. Si era ricoperta di una coltre di diffidenza verso l'altro, e "l'altro" comprendeva anche Ulysses. Una volta glielo aveva detto: «Non possiamo abbracciarci. Non finché la legge del Governo lo proibisce.». Lui era rimasto impassibile, ma bruciava dentro. Si erano tutti adeguati a quella nuova vita, ad essere controllati da Panopticon, alla sorveglianza dei droni, al timore dell’intervento della NoCon. Sembravano averla accettata di buon grado, come si fossero dimenticati della libertà e della vita che avevano prima del contagio. Nessuno sembrava aver compreso, era ormai palese, che quel controllo costante delle loro vite faceva parte di una trasformazione socio-politica, che non aveva più alcun legame con l’emergenza. Un controllo totale a cui Ulysses era diventato indolente. Era stanco di vivere così. Solo in quella moltitudine di corpi ormai vuoti. Mentre guardava fisso lo schermo del pc, si ricordò dei suoi studi di Filosofia, di Seneca che raccontava il suicidio di Catone e i suoi ultimi pensieri: “non agivo con tanta determinazione per vivere libero, ma per vivere tra uomini liberi: ora, poiché la condizione del genere umano è disperata, possa Catone mettersi al sicuro.” La voce del drone lo fece riemergere dai suoi pensieri. « Signor Black, non ha aggiornato Panopticon all’ultima versione.» « Quindi? Ho vinto qualcosa?» «Un viaggio all’inferno.» «Fottiti.» I proiettili calibro 9 della Beretta, nascosta da tempo, produssero un rumore sordo mentre perforavano il corpo del drone, che precipitò dalla finestra alla quale si affacciava frantumandosi in mille pezzi. Poco prima dello sparo, però, il giocattolino della NoCon aveva inviato alla Villa la segnalazione di allarme. Due, tre minuti al massimo e il furgone nero pieno di agenti sarebbe piombato sotto casa sua. Ma ad Ulysses non importava più nulla. Si preparò un caffè alla macchinetta elettrica, si accese un drum e guardò Kira. Si scambiarono un lungo sguardo, pieno d’affetto e di addio, poi la portò nello spazio verde sotto casa, lasciandole acqua e croccantini per un paio di giorni. Si allontanò dal cane che giocava con una lucertola, ignaro di tutto, e sbucò dal viottolo sotto casa . Gli agenti della NoCon lo accolsero con gli AK-47 puntati. C’erano ancora 15 colpi nel caricatore. Con tutta la rabbia che aveva, li scaricò addosso agli agenti, rimasti sorpresi dalla reazione del ragazzo. Erano piuttosto tranquilli, nessuno si azzardava a reagire con loro, figurarsi sparare. Gli schizzi di sangue macchiarono le visiere dei caschi antisommossa. Alcuni di loro sentirono l’impercettibile rumore del cranio che si fratturava un attimo prima che penetrasse la materia cerebrale. Altri colpi andarono a vuoto. Non volevano sparare e ucciderlo, avevano tormenti ben peggiori da fargli passare nei bunker della Villa. Ulysses si era fermato appena in tempo: aveva riportato a galla quel briciolo di lucidità sommersa dalla rabbia, lasciando un proiettile per sé. Guardò i suoi futuri macellai con sguardo impassibile mentre gli si avvinghiavano contro, sotto gli occhi spaventati e omertosi dei vicini di casa, che si nascondevano dietro le tende. Si puntò la Beretta sotto il mento. Gli agenti decisero di lasciare il corpo lì fino al giorno seguente, perché servisse da monito a chiunque potesse pensare di disobbedire al sistema. Kira tornò di corsa e si accucciò accanto al cadavere del suo padrone, riempiendo il vicinato di guaiti. Un racconto di Mattia Crispino.

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