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Immagine del redattoreAntonio Russello

MALEDETTI ALGORITMI

INTRODUZIONE:

La prima volta che abbiamo sentito parlare degli algoritmi si presume sia stato, per gran parte di noi, alle scuole superiori durante le ore di matematica e, diciamocelo chiaramente, non tutti abbiamo provato una certa simpatia nei loro confronti. Probabilmente ci saremmo anche chiesti: a cosa diavolo servirà in futuro aver assimilato tali nozioni?

Nel campo dell'informatica un algoritmo non è altro che un semplice procedimento che permette la risoluzione di specifici problemi mediante l'applicazione di una sequenza di istruzioni che, a loro volta, devono essere interpretate ed eseguite fino alla loro conclusione seguendo un ordine preciso. Le istruzioni sono poste in sequenza, una dopo l'altra; nella sequenza dei passi di un algoritmo sono presenti anche le regole operative che indicano all'esecutore come comportarsi.


Grazie alla grande espansione della tecnologia, e del marketing applicato a essa, ci ritroviamo davanti questi maledetti algoritmi, che sembrano in qualche modo aver imposto una sorta di “dittatura” che condiziona le nostre vite. Ad ogni modo, gli algoritmi si sono dimostrati un argomento chiave per chi studia computer science.

Google, Facebook e Amazon danno grande importanza a questa materia durante i colloqui di lavoro. Internet e la tecnologia hanno fatto progressi insieme agli algoritmi, e ovunque ci giriamo possiamo vederne svariati esempi intorno a noi: basta accendere il pc o uno smartphone.


L'ALGORITMO DI SPOTIFY:

Un esempio lampante è la piattaforma musicale svedese Spotify che, dopo essere stata lanciata nel 2006 dai suoi creatori Daniel Ek e Martin Lorentzon, oggi conta più di 345 milioni di utenti attivi nel mondo.

Tutto ciò è accaduto in un periodo in cui le vendite di CD sono diminuite esponenzialmente e le stesse case discografiche sembravano essere a corto di idee originali per ravvivare il mercato ed attirare nuovi consumatori. Fino a non molto tempo fa le nuove hit venivano scoperte grazie alla radio e la musica di qualità emergeva grazie a delle selezioni fatte da artisti competenti. Oggi, a discapito degli esperti del settore, questo meccanismo è diventato molto più semplice: per scovare brani di nostro gradimento e più inerenti alle nostre tendenze musicali basta un click. Bisogna solamente smanettare un po’, ascoltare ciò che già conosciamo abitualmente e apprezziamo di più e, come per magia, l’algoritmo ci porterà alla scoperta di ciò che fa esattamente al caso nostro.


Il sistema di Intelligenza Artificiale di Spotify si chiama BaRT (Bandits for Recommendations as Treatments) e cambia nel tempo a seconda dell’utente. Inizialmente il sistema impara a “comprendere” e catalogare i suoni e la musica, e giorno dopo giorno utilizza delle tecniche specifiche che si differenziano in 3 tipi:


-Natural Language Processing: dove avviene l’analisi dei testi, del linguaggio e del contesto delle canzoni;

-Raw Audio Analyzation: individuazione del tempo, della tipologia di suono e del mood del brano (se strumentale, cantato, etc...);

-Collaborative Filtering: con questa tecnica il sistema prova a prevedere cosa può piacere sulla base della cronologia di ascolto, suggerendo inoltre brani e artisti già ascoltati dagli utenti con le nostre stesse preferenze.


Per farla breve, Spotify si nutre di tutti i dati che gli forniamo, immagazzinandoli con lo scopo di ricostruire il nostro profilo ideale, e all’interno della piattaforma influisce ogni singola mossa che noi effettuiamo, anche la più improbabile: i brani ascoltati per meno di 30 secondi, ad esempio, vengono interpretati come un segnale di disinteresse, oppure se per sbaglio ascoltiamo qualcosa di anomalo rispetto alla nostra cronologia viene riconosciuto e ignorato. Una particolarità che sta facendo discutere è quella relativa all’ “Artist Input“, in cui

sostanzialmente Spotify dà la possibilità ad artisti ed etichette discografiche di indicare al sistema di Intelligenza Artificiale il brano potenzialmente migliore da promuovere.


ASPETTI SOCIALI:

I programmatori di algoritmi hanno la necessità di risolvere l’imprecisione statistica, e chiaramente per fare ciò hanno bisogno di più dati possibili. Sistemi del genere sono, ovviamente, adoperati anche da piattaforme del web come Google, che utilizzano informazioni secondarie per ricavarne quelle primarie che gli occorrono. Una donna che visita molti siti di calcio, ad esempio, potrebbe essere categorizzata come uomo. Così come un uomo che visita siti di cosmetici perché vuole solamente fare un regalo alla fidanzata. Questi esempi sono fondati sulla presunzione tecnologica, che rimane abbastanza discutibile poiché finiscono per auto-replicarsi.

Un algoritmo basato sui dati passati non potrà mai prevedere il futuro, ma finirà per replicare il passato. Quanto più spesso le donne vengono erroneamente categorizzate come uomini, tanto più spesso visitare siti tecnologici o finanziari appare essere cosa da uomini, e quindi le donne che visiteranno tali siti continueranno ad essere categorizzate come uomini (Google Thinks I’m a Middle-Aged Man. What About You?).

Gli algoritmi sono creati per approssimare il mondo in modo da soddisfare gli scopi dei loro programmatori, e incorporano una serie di presupposti su come funziona la società. In tal modo l’algoritmo può riflettere i pregiudizi del proprio creatore che incorpora nel codice, finendo così per replicarli su vasta scala, ampliandone le conseguenze. Il motivo principale dell’uso di queste tecnologie è chiaramente la necessità economica, che oggigiorno è sempre più basata sui dati e capitalizza le informazioni degli utenti cittadini al fine di fornire i prodotti dal quale trarre profitto.


LA LINGUA DEL DIAVOLO TRADOTTA DALL’ALGORITMO:

11 Agosto 1676. Suor Maria Crocifissa della Concezione, al secolo Isabella Tomasi, viene trovata per terra nel Monastero di clausura di Palma di Montechiaro (Agrigento) con un foglio tra le mani scritto in una lingua sconosciuta con un alfabeto incomprensibile. La cosiddetta “Lettera del diavolo" fu scritta di suo pugno e tradotta solo recentemente da un gruppo di informatici. Come racconta la suora alle consorelle, la lettera le fu dettata da Satana in persona al termine di una lotta estenuante con un gruppo di demoni. La vicenda ha appassionato scrittori come Tomasi di Lampedusa (pronipote della suora) e Andrea Camilleri. Negli anni 60 viene anche bandito un concorso che prevedeva come premio un soggiorno di un mese ad Agrigento per chi riuscisse a tradurre quel testo.

Nel settembre 2017 un gruppo di informatici catanesi, dopo più di 300 anni, è riuscito a decifrare la famosa missiva utilizzando un programma di decriptazione preso dal «deep web», che ha permesso agli algoritmi di effettuare dei tentativi di decifrazione. Le righe del manoscritto ricordano a prima vista il greco classico e a tratti l’alfabeto cirillico. Uno degli informatici spiega che all’interno dell’algoritmo è stato inserito l’alfabeto greco, quello latino, quello runico delle antiche popolazioni germaniche e quello degli Yazidi (il popolo considerato adoratore del diavolo che abitò il Sinjar iracheno prima della comparsa dell’Islam). Si tratta di alfabeti che suor Maria Crocifissa poteva avere visto o conosciuto. L’algoritmo prima individua i caratteri che si ripetono uguali, poi li compara con i segni alfabetici più simili nelle varie lingue.

Si narra che Suor Maria Crocifissa uscì tramortita da tutta questa vicenda. Quelle 14 righe misteriose sono oggi custodite nel Monastero di Palma di Montechiaro e se sono tutto ciò di quel che resta della lotta con Belzebù dobbiamo ringraziare un “maledetto” algoritmo.

Fonte immagine: ChurchPop

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