Settembre 2020: decido di recuperare quel capolavoro che è Dune, il romanzo fantascientifico di Frank Herbert, in vista dell’uscita del nuovo adattamento cinematografico di Denis Villeneuve. Mi è sempre piaciuto analizzare le differenze e le analogie tra medium diversi. In questo caso, avevo a che fare proprio con uno di quegli “adattamenti impossibili”. Un romanzo complesso che tratta temi come la politica, l’ecologia e la spiritualità, e da cui provare a tirar fuori delle sequenze in movimento sarebbe già una sfida persa in partenza, o al massimo un curioso esperimento che metterebbe solo in risalto la diversità dei due linguaggi, quello del cinema e della letteratura.
"Dune è un libro simile a Proust. Si tratta di fantascienza ma è davvero, davvero letterario. Trovare delle immagini da girare è davvero difficile perché le immagini sono legate alla vista”.
Queste le parole del film maker Alejandro Jodorowsky che per primo tentò di portare l'opera sul grande schermo, senza riuscirci. Il film prevedeva la collaborazione di grandi personalità del calibro di Salvador Dalì, Orson Welles, Mick Jagger e Moebius. Il progetto risultò troppo ambizioso e costoso e il film non fu mai realizzato. Poi nel 1984 il produttore Dino De Laurentis, affascinato dal successo commerciale di Star Wars, decise di mettere le mani sul progetto di Dune per soddisfare la voglia di fantascienza degli spettatori. Così si rivolse a David Lynch per la direzione del film, che si rivelò un totale flop.
Ma torniamo a noi. E’ il 5 ottobre, ho già assimilato le pagine scritte da Frank Herbert e attendo dicembre per l’uscita del film nelle sale. Quel giorno però Warner Bros e Legendary Pictures comunicano che Dune è posticipato ad ottobre 2021 a causa della pandemia. Stessa fine fanno tante altre produzioni ad alto budget, come The Batman, The Flash, o No Time To Die, l’ultimo della saga di James Bond già posticipato una volta a novembre e poi ad aprile 2021.
Hollywood fa marcia indietro. Come se avesse paura di bruciare le proprie carte più forti, cioè quei prodotti che sono incassi sicuri. E in un momento dove non è garantita l’affluenza degli spettatori, non c’è garanzia per un guadagno netto. Non c’è strategia di marketing che regga, anche se il soggetto in questione è la grande industria culturale di Hollywood. I film devono essere posticipati.
Con i cinema chiusi, e l’impossibilità di uscire di casa, lo streaming è diventato l’unico mezzo principale per vedere i film-evento. Ecco che ci troviamo davanti a una nuova prospettiva: quella del “dirottamento” in streaming. Sono tante, infatti, le pellicole ad alto budget pensate per la visione sul grande schermo ma disponibili su piattaforme online. Basti citare il caso di Soul, l’ultimo film Pixar, che ha saltato la sala cinematografica per approdare direttamente su Disney+ lo scorso dicembre, oppure Sto pensando di finirla qui, ultima opera di Charlie Kaufman visibile in Italia esclusivamente su Netflix, o ancora Le streghe di Robert Zemeckis. Questi film, che non sono ancora approdati nelle sale e che sono disponibili solo su piattaforma o con noleggio digitale, prendono il nome di Premium VOD o noleggio premium. E’ stata la Universal una delle prime case di produzione a puntare sul video-on-demand, con titoli come Emma e The Invisible Man o Trolls World Tour, che ha registrato il più grande debutto digitale di sempre, piazzandosi in vetta alle classifiche di tutte le principali piattaforme on-demand.
I dati suggeriscono che in questo momento l’unica salvezza per le case di distribuzione è quella di puntare ai servizi di streaming, e i modelli più funzionali sembrano essere quelli adottati da Netflix e Disney+, che hanno la caratteristica di offrire un fisso mensile per accedere a diversi contenuti disponibili in qualsiasi momento.
La vecchia distinzione tra "film" e "film per la televisione" sembra aver perso di significato. In un’era in cui già la televisione è sostituita da vari laptop e smartphone, la sala cinematografica diventa quasi un lusso evitabile. Questa soluzione casalinga però rischia di diventare un comfort che impigrisce lo spettatore e porta inesorabilmente alla perdita del senso dell’immagine.
Si potrebbe dire, insomma, che l’esperienza del cinema non potrà mai essere totalmente sostituita con quella della visione a casa. Il cinema come esperienza non morirà, perché è intrinsecamente diversa da una fruizione casalinga. Una sala è prima di tutto un luogo altro rispetto a quello domestico, uno spazio di condivisione collettiva tra spettatori.
A sottolinearlo è anche Steven Spielberg, che in un articolo pubblicato per Empire Magazine parla dell’importanza della fruizione cinematografica:
“Far parte di questa comunità vuol dire avvertire un senso di comunione con le altre persone che hanno lasciato le loro case e sono sedute lì. In una sala cinematografica guardi un film con le persone che per te sono importanti, ma anche con tanti sconosciuti.”
E’ un pensiero che fa riflettere ancora sulla modalità di fruizione adottata da uno spettatore medio. Tutti i film citati fino ad ora sono blockbuster, cioè prodotti ad alto budget che mirano ad un guadagno veloce già nel primo week-end di programmazione. Questi film-evento trovano la loro diffusione principalmente nei grandi multisala, che sono ambienti di diffusione di spettacoli confezionati per un consumatore occasionale. Che non cercano di fidelizzare con lo spettatore, ma si comportano più o meno come un fast food.
E’ del tutto logico che la grande macchina di Hollywood abbia inserito il freno a mano e in assenza dei cinema multisala abbia trovato metodi nuovi (e più comodi), preferendo una distribuzione on-demand. Un prezzo leggermente più alto del biglietto per una visione direttamente in casa. E’ questo il paradosso che confonde. Non è il cinema ad essere morto, bensì il modello economico di fruizione in sala.
Tutto questo ha portato anche le piccole sale cinematografiche e le cineteche a doversi riorganizzare spingendosi verso questa nuova modalità e puntare sempre di più sullo streaming.
Sono tanti i cinema italiani che hanno sposato le possibilità offerte da canali di distribuzione digitale come Mymovieslive e Valmyn, in modo da simulare più o meno fedelmente la visione di un film al cinema attraverso posti assegnati, limitati e numerati e streaming che iniziano a un orario prestabilito. Sale reali che offrono la possibilità di guardare la propria programmazione da casa.
Nel maggio dello scorso anno la Cineteca di Bologna si è organizzata per creare un dialogo con il proprio pubblico, nonostante la crisi. Un’idea che nasce per mantenere vivo l’interesse degli spettatori abituali e alimentare la partecipazione alle iniziative culturali proposte. Un’iniziativa fatta di incontri online, presentazioni e discussioni che è riuscita con successo ad ammortizzare la chiusura delle sale. Questo apre a scenari nuovi che evidenziano una cambiamento evidente. Il circuito di sale virtuali #Iorestoinsala ne è una garanzia. Nelle parole del suo cofondatore, Lionello Cerri, l’intenzione è quella di non tornare indietro e rendere le piattaforme protagoniste anche quando tutto sarà riaperto. In questa nuova prospettiva, business e cultura operano contemporaneamente in modi ancora più stretti, e l’emergenza dettata dal Covid-19 è stata solo un potente acceleratore di dinamiche già in atto. Oggi siamo già dentro questa nuova progettualità in cui studios e grandi sale cinematografiche scelgono di direzionare i propri prodotti in simultaneità tra streaming e grande schermo.
Questa scelta di digitalizzazione di massa dei prodotti cinematografici ha portato tantissimi lavoratori dello spettacolo, coinvolti in prima persona, a prendere posizioni nette sull’argomento. Tra i sostenitori dell’esperienza in sala spicca la figura di Danis Villeneuve, che con un articolo pubblicato su Variety critica aspramente la scelta della Warner Bros di distribuire Dune sulla piattaforma streaming HBO Max (che al momento non è disponibile in Italia). Villeneuve afferma che la casa di produzione “non prova nessun amore per il cinema e nemmeno per i suoi spettatori” e che pensa soltanto alla “sua sopravvivenza in borsa”. Villeneuve sospetta scenari poco luminosi da questa scelta e, secondo lui, potrebbe portare al trionfo della pirateria. In effetti, i dati indicano che fino a questo momento il servizio offerto dalla piattaforma HBO Max è stato un netto fallimento. Anche Christopher Nolan lo scorso anno si è scagliato contro la scelta della Warner di digitalizzare il suo ultimo film Tenet, e a difesa del film si era impegnato per farlo uscire nei cinema. Tenet alla fine è uscito in sala, ma è anche stato usato come “provino” per capire l’andamento dei film al cinema: il risultato è però stato giudicato deludente da parte della casa di produzione, che ha incassato meno di 350 milioni di dollari ai box office mondiali.
Villeneuve ha spiegato che Dune è stato pensato e girato per la sala cinematografica, e che la Warner ha “probabilmente già ucciso” il suo film.
Si ritorna al discorso affrontato in precedenza: è tutta una questione di linguaggio. La Warner, quando vende il proprio film ad un distributore digitale, è consapevole che in questo modo sta contribuendo a cambiare il significato di certe scelte, cioè quelle che vengono fatte nell’atto di creazione del film. Per esempio, la durata di una scena è pensata per avere un timing specifico. E se decidiamo di mettere in pausa quella scena, una volta premuto il tasto play ne cambiamo il senso e ne modifichiamo il racconto. Anche il formato di un film ha una propria grammatica, e la sua frammentazione in diversi device ne trasforma il senso e ne cambia l’impatto emotivo.
Il senso di disagio e le vertigini che ho provato in sala quando ho visto un film come Gravity, ad esempio, non li avrei provati in una visione domestica. Di conseguenza ne avrei frainteso le intenzioni.
Al di là di queste considerazioni, il cambiamento non si può fermare. Il cinema è sempre stato a passo con le tecnologie, ha cambiato spesso volto e ha modificato il proprio linguaggio nel corso del tempo.
Dal 2020 le abitudini degli spettatori sono cambiate, e ad oggi una buona percentuale di utenti utilizza contemporaneamente tre o più sottoscrizioni a servizi streaming e on-demand. Sarebbe inutile negare la forza dei canali digitali, ma tutto questo non deve rischiare di trasformare lo spettatore-attivo in spettatore-passivo. L’unica soluzione è semplicemente quella di un consumo culturale consapevole. D’altronde sono sicuro che la riapertura delle sale riporterà le persone a voler ripetere l’esperienza del cinema e a vivere le due esperienze (quella della sala e quella della visione a casa) come due cose distinte e separate. Due figli della stessa idea, ma presentata con linguaggi differenti. Forse proprio come il romanzo di Frank Herbert e il film di Villeneuve.
La globalizzazione dei prodotti cinematografici su tecnologie sempre più diffuse è solo una delle tante trasformazioni dei prodotti culturali. Non dobbiamo dunque gridare alla morte del cinema. Siamo solo in un’epoca un po' più complessa, dove convivono immagini in movimento contenute in diversi dispositivi, in diversi formati, con la stessa funzione: intrattenere.
A cura di Salvatore Costanza
Immagine in copertina: Brigitte Bardot, 1955 ca., Hulton Archive - Getty Images
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