Ci ritroviamo isolati.
Un corriere, costretto a lunghi e pericolosi viaggi, porta una mole spropositata di pacchi. Le persone, purtroppo, ne hanno un estremo bisogno. C’è chi ordina medicine, e non riesce a sentirsi in colpa: lo fa per bisogno; c’è chi ordina materiali per il lavoro, e come biasimarli, d’altronde? Altri, magari vergognandosi, e in totale silenzio, hanno ordinato delle action figure o della biancheria intima di pregio, e sono consapevoli di mettere a rischio la vita dei corrieri per un nonnulla. Cercando di non pensarci e tirando avanti. D’altra parte, chi lo dice cosa è “strettamente necessario” e cosa no?
Li guida la coscienza.
Non escono di casa, se non per dei bisogni irreparabili. Là fuori non è più sicuro come una volta, non è certo momento per futili sogni o ambizioni: si resta al sicuro nei propri rifugi, nelle proprie case. Meglio rimanere cauti, non incontrare nessuno. L’altro può creare problemi, è meglio dubitare di tutto e tutti: là fuori il mondo non è più lo stesso.
In fondo, ci si è abituati così. Forse è proprio così che doveva andare, prima o poi. Reti immaginarie, gestite da questi corrieri novelli Ulisse, il mondo a portata di un ordine, un nemico invisibile fuori dalle sicure porte blindate di casa. Chi si avventura, sa che rischi corre: d’altra parte ha scelto lui di fare quel lavoro, non certo io. Il mio potere è quello di ricevere dei pacchi, in questo mondo, e tanto basta.
No, non sto parlando in chiave pessimistica della situazione attuale da lockdown, attenuato o meno. Sono sì totalmente immerso in un mondo pienamente assurdo, ma di altro tipo: sono nel mondo virtuale di un videogame uscito nell’autunno del 2019: Death Stranding, opera prima della software house Kojima Productions, uscita in esclusiva Sony per Playstation 4, e in arrivo anche su PC a luglio 2020.
Chiariamoci: di opere che sono state, in qualche modo, predittive di un evento di tale portata, in questi giorni, se sono state citate molte, a ragione. Ma la sensazione di avventurarsi, controller alla mano, in un mondo post apocalittico così singolarmente e sinistramente simile al nostro (o che rischia fortemente di essere una perversione di un mondo del genere), è sicuramente
un’esperienza forte, che fa riflettere sulle dinamiche della nostra società e sui temi che l’emergenza da COVID-19 porta con sé. Ma andiamo con ordine.
L’uscita di Death Stranding, anticipata da un’ingente campagna mediatica che ha creato un hype difficilmente replicabile, è considerata l’evento videoludico per eccellenza del 2019, anno in cui si attende la messianica rivelazione della nuova opera del giapponese Hideo Kojima, istrionico game designer, massima istituzione nel campo dei videogames e ideatore, tra le altre, della celebre saga di Metal Gear. Autore schizofrenico ed esplosivo, Kojima è un unicum tra i protagonisti nel panorama del mondo videoludico: una sorta di rockstar che sguazza nella provocazione, ammantato dell’aura di santone, con una chiarissima formazione narrativa che deve molto al mondo del cinema. Hideo-San, per la sua prima opera in solitaria, vuole raccontare una storia, e vuole farlo più con gli strumenti del cineasta che con quelli del “semplice” game designer. Decide dunque di raccontare le sue angosce. La paura, figlia degli anni zero, che l’individualismo imperante distrugga le reti sociali consolidate. La paura che l’uomo, forte della sempre più rassicurante tecnologia, pensi che non ci sia più bisogno dell’altro, che possa farne a meno. Nei lavori precedenti, l’autore giapponese aveva raccontato con rara delicatezza e maestria (un unicum nel mondo del videogioco degli anni ‘90) l’incubo del nucleare, figlio della sensibilità prettamente giapponese su questo tema, mostrandosi molto attento a sfruttare il medium videogioco per innalzarlo a mezzo per raccontare la contemporaneità e le angosce per il futuro.
All’alba del nuovo decennio, non è più la guerra a preoccupare l’uomo, bensì un evento del tutto proveniente dalla natura matrigna. Un rigetto della terra, un evento catastrofico e misterioso (il Death Stranding del titolo) che spazza via, in un respiro, la civiltà umana per come la si conosce. Si è parlato molto dell’impronta ecologista di questa opera, perché in Death Stranding la Natura, finalmente libera, riprende subito possesso della Terra, cancellando la morfologia delle città e tornando ferus, selvaggia, nel senso originario del termine. Su quello che resta degli Stati Uniti d’America, i superstiti e i loro figli re- imparano a sopravvivere, passando tutta l’esistenza in bunker sigillati che vengono collegati al pericoloso mondo esterno solo da compagnie di corrieri (la Bridges e la Fragile), incaricate di consegnare i beni necessari all’esistenza, come medicine, cibo e attrezzi di difesa. E’ proprio uno di questi corrieri, chiamato Sam Porter Bridges (interpretato dal Norman Reedus di The Walking Dead), il protagonista che controlleremo nel gioco: un uomo comune (scordatevi super poteri, super forza, super agilità o altre abilità tipiche dell’eroe videoludico) alle prese con un mondo terribile, la cui missione messianica sarà quella di “riconnettere” fisicamente gli Stases, o quello che resta, cercando di ricreare l’ideale americano, attraverso una nuova rete chiamata UCA (United Cities of America).
Mettendo per la prima volta in avvio, il gioco ci presenta subito questo basilare tema della connessione, aprendo con una citazione dello scrittore giapponese Kobo Abe:
“La corda e il bastone sono due degli strumenti più antichi dell’umanità. Il bastone serviva a tenete lontano il male, la corda per portare a noi il bene. Sono stati i nostri primi amici, li abbiamo inventati noi. Ovunque vi fossero delle persone, là si trovavano anche la corda e il bastone”.
Il concetto di corda è naturalmente legato ai nodi che collegano, in un mondo aspro, i superstiti che accetteranno di connettersi alle UCA, sforzandosi di dare fiducia a un’umanità impaurita rintanata nelle buie tane della caverna di Platone. Fiducia, apertura verso l’altro, superamento della solitudine: sono concetti che l’autore giapponese non manca di ricordare ad ogni intervista
legata a Death Stranding, e che non sono solamente mero orpello di un gameplay, ma fulcro fondativo su cui ruota tutta l’esperienza.
Tutti noi, in un modo o nell'altro, ci siamo sentiti, in questo periodo, fortemente fragili a convivere con la nostra solitudine. Distaccati materialmente dalla comunità e dalla vorticosa vita consumistica, ci siamo trovati, nudi, ad accorgerci di quanto il conforto dell’altro, il confronto speculare, siano fondamentali per noi animali sociali.
Allo stesso modo, incredibilmente, Kojima ancora una volta sembra predire anche questa sensazione, lasciando il giocatore alle prese con un mondo che lo fa sentire disperatamente solo, nudo -nella scena iniziale dell’opening la nudità integrale di Reedus sembra richiamare simbolicamente questo concetto di debolezza di fronte al mondo- e irrimediabilmente affamato di socialità.
Racconta l’autore di Tokyo, che non disdegna mai di lasciarsi andare ad analisi personali e aneddoti sul senso del suo lavoro:
"Ho sempre provato la sensazione di essere da solo, magari a volte perché senti che vivi in un posto orribile e sperimenti questo tipo di solitudine. E capisci che probabilmente è un sentimento condiviso da molte persone in giro per il mondo. Credo che queste persone abbiano la tendenza a giocare molto e quando giochi da solo, ti senti solo”.
E gli altri? Che posto hanno in Death Stranding?
Tutti i videogame che contemplano l'utilizzo della componente multigiocatore, in genere, si basano sul presupposto di uno scontro con gli altri utenti. Gli sparatutto, certo, ma anche altri generi, portano il player a competere, in qualche modo, con l'altro. Kojima parla di stress e solitudine del giocatore medio: vivendo continuamente per sottomettere gli altri utenti, egli vive il mondo online con una componente forte di ansia mista a dopamina. Allo stesso modo, facendo un parallelo con i social, l’avventore di instagram/facebook è portato a vedere la presenza di altre persone come una competizione sociale in cui vince chi fa la vita migliore, chi acquisisce il consenso degli altri. Costringendolo a sentire, nettamente, il bisogno della corda di un altro utente. Egocentrismo che maschera bisogno ancestrale di connessione, dunque. Dice Kojima, in un’intervista durante la presentazione di Death Stranding a New York dello scorso novembre:
“Al giorno d'oggi, abbiamo una corda che è Internet, che con una serie di nodi connette tutti e dovrebbe rendere tutti felici. Invece quello che accade è che l'uomo continua a usare il bastone per combattere online, sui social. Così, in Death Stranding ho pensato di creare qualcosa di totalmente diverso che avesse al centro il concetto della corda. Le mani, nel gioco, sono una sorta di icona. Quando le apri e le unisci hai una stretta, una sorta di comunicazione, mentre se le chiudi hai un pugno e con la stessa mano puoi usare violenza. E allora la mano diventa una metafora: è sia corda sia bastone, ma anche il pollice può essere all'insù o all'ingiù e così in Death Stranding le mani sono il vero mezzo di comunicazione”.
Il multiplayer di Death Stranding dunque stravolge i concetti sedimentati fin qui nell’ambiente del videogame. I giocatori vengono inseriti casualmente, a ogni partita, in un qualsiasi server tra i tanti possibili. Non sarà mai possibile vedere fisicamente la presenza di altri utenti, perché l’idea è quella ricorrente di dare al videogiocatore la sensazione di essere solo al mondo (esiste addirittura un comando, pigiando sul tab centrale del controller, che consente di urlare un disperato ‘sono qui!’, irrimediabilmente senza risposta). Eppure, la presenza degli altri si esprime in un altro modo:
essi possono lasciare tracce tangibili attraverso varie strutture (un mondo selvaggio ha bisogno di ponti, corde, guadi, cartelli di avvertimento, messaggi), o aiutando a riparare quelle già realizzate dal vostro Sam, che allo stesso modo potrà ricambiare. La sensazione è quella di scovare ogni ora del gioco un nuovo indizio della presenza di qualcuno di sconosciuto che, in un modo o nell’altro, sta regalando qualcosa: aiuto nel tuo cammino videoludico e sostanziale dono di minuti di vita (virtuale, ma anche no). L’unico input di comunicazione con l’altro si sublima con l’atto del like, che è possibile accumulare e scambiare a propria volta, alla stregua dei social network tanto bistrattati, in una sorta di parodia-omaggio della nostra realtà.
“Di sicuro, in Death Stranding la storia e il tuo personaggio portano avanti la missione solitaria di connettere il mondo, ma a un certo punto sperimenterai la sensazione di non essere più da solo, perché come te ci sono molte altre persone che stanno giocando allo stesso modo", aggiunge l’autore giapponese, in una “banalità” così semplice, eppure diretta e coraggiosa, che stupisce per come viene inserita all’interno dell’esperienza di gioco. "Al mattino, quando ti svegli, sentirai un po' di sollievo perché hai scoperto che in giro c'è molta gente come te che sta facendo le stesse cose e sentirai una sensazione positiva. [...] Questo è il messaggio chiave che Death Stranding vuole portare: siate più gentili”.
In definitiva, l’opera di Kojima, con la sua narrazione lenta e i suoi messaggi complessi, tenta di travalicare i confini che normalmente tendiamo a dare ai videogiochi, considerati dai più una mera valvola di sfogo per conclusioni di giornate stressanti. Il game designer giapponese decide, attualizzando e quasi anticipando la realtà, di dare uno schiaffo al videogiocatore medio, costringendolo a fare continui paralleli con la natura dell'uomo, della sua impronta distruttiva sul resto del mondo e del suo antropocentrismo spicciolo. Ci si trova soli, disperati, con un carico troppo pesante sulle spalle, cercando di fare i conti con un'umanità che ha deciso di chiudersi in se stessa, in spazi angusti come dei cunicoli, che alla fine diventano spazi di estrema e confortante sicurezza. Qualcuno la chiama sindrome della capanna, cabin fever, ed è interessante notare quanto sia un tema diventato attuale da un momento all’altro. Un concetto che sembrava lontano, fino a quando gli stessi videogiocatori si sono trovati a fare i conti con questi giorni disperati di isolamento. La cosa incredibile di Death Stranding è che in qualche modo, anticipando la contemporaneità, ha finito per seguirne gli stessi binari, dando la sensazione al player di rivivere le stesse difficoltà e le stesse assurdità di un mondo siffatto. L’augurio è che la realtà segua l’andazzo della parabola di Sam, che in fin dei conti è un forte messaggio di speranza e connessione, teso a ricordarci sempre la nostra, ineluttabile, fatale natura di animali sociali.
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