Perché la docuserie di Netflix ci mostra un lato dell’Italia che avevamo deciso di ignorare.
“SanPa- Luci e tenebre di San Patrignano” è una docuserie italiana uscita sul catalogo di Netflix il 30 dicembre 2020, sulla coda lunga di un’annata in cui il colosso statunitense dello streaming ha visto ingigantire la sua leadership ed aumentare la sua utenza, aiutato dalla pandemia globale che ha costretto buona parte della popolazione nelle proprie abitazioni.
Il documentario, diretto da Cosima Spender e realizzato dalla casa di produzione 42 di Gianluca Neri (che ha scritto il soggetto insieme a Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli), è suddiviso in cinque episodi dai titoli da romanzo ottocentesco (Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta), e tratta della storia di Vincenzo Muccioli e della sua comunità di recupero per tossicodipendenti, San Patrignano, realtà nata sul finire degli anni Settanta a Coriano, in provincia di Rimini.
Partita in sordina, senza grandi annunci da parte del colosso dello streaming, nel mese di gennaio la serie viene sostenuta da un’imponente campagna di comunicazione sui quotidiani nazionali e sulla tv generalista, che si affrettano a sostenere con recensioni molto positive quello che è già diventato un febbrile passaparola. Netflix coglie la palla al balzo e, nei giorni successivi, affolla i propri canali social di teaser, interviste ai registi e video promozionali, attirando una mole enorme di interazioni che fanno diventare SanPa, nel giro di pochi giorni, il prodotto più chiacchierato della piattaforma.
SanPa ha avuto successo per molti motivi, a partire dalla qualità generale molto alta per una serie italiana, ma soprattutto perché non vuole essere una mera trasposizione classica di una storia di successo come un’altra. La serie non pretende di raccontare nel dettaglio la vicenda di un centro di recupero partito da un casolare sui monti romagnoli e finito ad essere uno dei più grandi d’Europa, ma si occupa di dare allo spettatore, attraverso interviste e video dell’epoca saggiamente incasellati, la narrazione storica e morale del fondatore Vincenzo Muccioli, un personaggio mastodontico e complesso che sembra uscito direttamente dalla penna di uno scrittore di gialli psicologici, e che forse rappresenta la forza dirompente che ha fatto sì che SanPa, in un mare di prodotti simili e concorrenziali, sia riuscito ad emergere con tanta forza.
Muccioli è un personaggio che non nasconde nulla a chi vuole raccontarlo, tanto da essere, spesso, egli stesso il narratore della propria storia, attraverso centinaia di registrati autoprodotti in cui, da precursore di un modo di raccontarsi prettamente social, concede interviste, filma la vita quotidiana del centro, espone le proprie idee sulla società italiana e sui suoi progetti personali. Il mosaico di testimonianze del tempo è talmente ricco che a volte si ha la sensazione che i video siano finti, girati con degli attori truccati, e che la grana da WHS sia stata aggiunta successivamente.
Il fondatore di San Patrignano viene sviscerato in tutte le sue contraddizioni, attraverso la saggia scelta della regia di non inserire alcuna voce narrante, ma lasciare le parole e le testimonianze di chi gli eventi citati li ha vissuti (tramite la fervida vivisezione di centinaia di ore di registrazioni, filmati d’epoca, stralci di talk-show, telegiornali e interviste inedite montate ad hoc). Un’idea non di certo originalissima, ma che si pone sulla scia del grande successo delle serie-documentario che, da un paio di anni a questa parte, stanno avendo un grande riscontro tra il pubblico generalista, come la celebre The Last Dance sui Chicago Bulls di Jordan, che ha raggiunto l’invidiabile record di serie più vista di sempre di Netflix.
IL FENOMENO MUCCIOLI
Diversamente da The Last Dance, SanPa non racconta però un’ascesa verso il successo, bensì una lenta e terribile caduta verso gli inferi: Muccioli viene inizialmente raccontato sotto una luce messianica, intento con la sola forza della volontà a raccogliere dalle strade i corpi di questi giovani dimenticati, e la narrazione ci porta a scorgere con i nostri occhi la situazione di quegli anni disperati di un’Italia che fa finta di non vedere l’effetto devastante che la droga sta avendo su un’intera generazione. Questi ragazzi, come li chiama continuamente Muccioli sibilando la zeta alla romagnola, vengono subito introdotti al sostentamento di una comunità basata sul lavoro (allevamenti, agricoltura, piccoli lavori di edilizia) che si trasforma lentamente in un centro dove tutti possono sperare di essere accolti in modo totalmente gratuito.
Una cosa che molti degli intervistati nel documentario ci tengono a sottolineare è la “personalizzazione” della cura, incarnata dalla figura onnipresente di Muccioli, che con il suo fare istrionico si pone come primaria “medicina” per i suoi ospiti. Nei video di repertorio che si susseguono, è ipnotico osservarlo mentre con le sue grandi braccia sembra ghermire in un abbraccio qualsiasi persona gli vortichi attorno, alla ricerca di un contatto che funga da rinforzo, come un fratello grande capace di occuparsi del peso di un’umanità intera. Ragazzi e ragazze gli si stringono attorno come la folla segue Gesù nei racconti biblici: in quel momento, Muccioli è la cosa più vicina ad un messia che si possa immaginare. L’opinione pubblica lo vede come una sorta di salvatore della Patria, capace di accollarsi da solo l’onere di queste vite abbandonate dallo Stato, che da parte sua sembra non volersi accorgere dell’enorme problema sociale che permea ormai tutti gli strati della società, preferendo demandare a questo simpatico omaccione romagnolo un compito così complesso e quasi disumano.
La realtà di San Patrignano diventa quindi, con il benestare delle autorità, uno dei centri più frequentati dell’intero stivale, e crescerà tanto da contare tra le sua fila migliaia di “pazienti” in continuo aumento fino al calare degli anni Ottanta: è il culmine del successo mediatico di Muccioli, che diventerà una sorta di icona religiosa, specie per i familiari dei ricoverati, che in lui vedranno l’unica mano tesa in una società apparentemente cieca.
Con l’andare delle puntate subentreranno le prime incrinature di questo sistema apparentemente idilliaco, in cui il marcio emerge attraverso i metodi poco limpidi –violenze, coercizioni, nonnismo-con cui il sistema-SanPa cerca di controllare l’ordine di un centro sempre più mastodontico, ormai impossibile da controllare.
Muccioli subirà, in seguito alla testimonianze di alcuni pazienti, ben due processi, a partire dal 1983: prima una condanna per sequestro di persona e maltrattamenti, da cui verrà poi assolto, infine, nel 1994, una condanna per favoreggiamento e omicidio colposo in seguito alla morte di Roberto Maranzano, un ex ospite di San Patrignano.
Il fondatore morirà nel 1995, nel punto più basso della sua decadente popolarità, ormai stanco e imbolsito, spettro dell’uomo pimpante e gigantesco che era stato. I processi contro Muccioli e le gravi accuse che gli erano state mosse furono uno shock per tutti gli italiani, che furono rapidi rimuovere dalla memoria una vicenda che aveva infiammato l’opinione pubblica per anni. Tutti, politici compresi, si erano esposti fino all’inverosimile in favore della figura di Muccioli, arrivando anche a sminuire o negare i metodi totalitari che delle volte, nel silenzio generale di San Patrignano, avvenivano verso i più riottosi ad accettare l’astinenza forzata. Dopo la morte di Muccioli, si sentì da parte di tutti il bisogno di staccare la spina, e probabilmente anche lo stesso centro di SanPa cercò di scollarsi definitivamente la figura ingombrante del suo fondatore, traghettando in avanti un centro che ancora oggi continua ad esistere.
UN PASSATO CON CUI FARE I CONTI
Il documentario pone quindi chiaramente allo spettatore l’intento di raccontare le luci e le ombre di questi vent’anni su cui si basa la narrazione, lasciando il fruitore davanti a un dilemma morale: è giusto, per arrivare al bene- quindi il recupero di persone completamente abbandonate dalla società- compire il male attraverso metodi coercitivi e insabbiamento di soprusi?
Mentre lo spettatore viene stuzzicato dall’idea che non può esistere, in alcuna storia, una concezione netta di bianco e di nero –su questo concetto si baseranno molte delle interviste presenti nella serie-, la narrazione corre veloce a mostrare le sfaccettature e i brandelli di un’epoca che pensavamo di conoscere bene, ma che invece ci si mostra, come poche altre volte, fredda e inquietante, e così peculiarmente italiana che vengono i brividi. In uno dei filmati dell’epoca, presente nella prima puntata della serie, si vede un ragazzo vagare come un fantasma nei pressi di un parchetto di chissà quale periferia, evidentemente sotto l’effetto dell’eroina: mentre incespica senza meta, inciampa su una siepe e ci cade dentro, tentando goffamente di rialzarsi. L’immagine dura pochi secondi, ma l’angoscia provocata nello spettatore dilata il video in momenti che sembrano eterni. Questo avveniva nelle strade italiane, tutti i giorni, alla luce del sole: quello siamo stati, tra le altre migliaia di cose, e non ce ne rendiamo conto finché non lo vediamo coi nostri occhi.
La storia di Muccioli è degna di una sceneggiatura hollywoodiana, colma di talmente tanti spunti istrionici, ambigui e leggendari che sembra assurdo concepire che tutto ciò sia accaduto, in Italia, solo trent’anni fa. Nel pieno dello stanco revival plasticoso degli anni Ottanta, che hanno trasmesso nello spettatore un’idea soft e coloratissima di quel periodo (molti ricorderanno il recente omaggio del capodanno russo di Ciao 2020), rendersi conto che esisteva un altro mondo crudo, disperato e reale è uno shock che sveglia dal torpore. Si scorge la nostra cultura popolare, in SanPa, certe nostre nevrosi e certi vizi atavici che rivediamo ancora oggi nella società italiana, tanto che la cosa più inquietante è pensare che quelli, sostanzialmente, siamo ancora noi. Uno dei creatori della serie, Carlo Gabardini, in uno dei teaser di Netflix successivi al 31 dicembre, mette l’accento proprio su questo aspetto della nostra cultura: “Questa storia è uno specchio dell’Italia. Il bisogno di cercare, davanti le emergenze come quelle della droga, un uomo forte che arriva e risolve tutto. Il bisogno di trovare la fede in qualche cosa, qualunque essa sia. Il bisogno di mettere delle etichette, di dire ‘questo è buono’ e ‘questo è cattivo’, anteporre subito un giudizio”.
Durante lo scorrere delle ore e dei video di repertorio, ci si accorge presto che la vicenda di Muccioli e di San Patrignano non è una storia scovata tra le polveri della contemporaneità italiana, come sembrerebbe dalla blanda esposizione del documentario nelle primissime fasi e come parrebbe dal silenzio creatosi intorno alla storia dagli anni Novanta in poi. Da quel che si vede nel documentario, le vicissitudini e i successi di Muccioli vennero raccontati da ogni telegiornale, divennero febbrile argomento di discussione nei talk-show, lo stesso Muccioli fu sovente ospite, sempre applaudito, di svariate trasmissioni nazionali. Come è possibile che questa storia, così esposta, sia diventata all’improvviso una cronaca dimenticata tra le pagine della nostra contemporaneità? Colpisce molto proprio il senso di stupore che ha colto molti spettatori, specie i più giovani, rispetto all’esistenza stessa di questa vicenda, che sembra provenire da un mondo precedente e distante, senza alcuna radice nel nostro presente.
E’ la stessa regista della serie, Cosima Spender, a confermare questa sensazione di damnatio memoriae, nell’intervista-promo lanciata da Netflix su Youtube: “La storia di Muccioli e San Patrignano ha dominato le cronache italiane negli anni Ottanta e Novanta, e poi improvvisamente non è più stata raccontata. Ci voleva una docuserie in questo formato per riprenderla”.
Si potrebbe pensare che sia una peculiarità della nostra cultura, quella di vivere una grande sbornia collettiva e poi, quando tutto scricchiola e cede, gettare nell’oltretomba ogni ricordo, ogni rimando, facendo finta che nulla sia accaduto. Non parlarne più per creare distanze e forse rimuovere. Da questo punto di vista, c’è un personaggio che potremmo definire quasi “poetico” nella sua essenza all’interno della serie, che è quello di Fabio Cantelli, prima ospite del centro e successivamente capo dell’ufficio stampa di San Patrignano, oggi filosofo e scrittore. E’ lui a tenere la narrazione su fila più eteree ed illuminanti, l’unico tra gli intervistati ad affrontare questo tema del grande rimosso collettivo che esula dalle micro-storie carnali legate a San Patrignano. In un’intervista successiva all’uscita della docuserie, infastidito e allo stesso tempo incuriosito dai grandi dibattiti nati nel frattempo sui social e sui canali d’informazione, dirà: “Quelli sono temi che vengono sfiorati e rimossi, ma rimangono sotto le braci ardenti: basta poco a farle divampare”.
Non solo Cantelli, ma anche tutti gli altri intervistati provengono da un mondo passato e rimosso, un mondo che non c’è più e che si lascia intravedere appena, ma che in realtà continua a parlare al presente, ad esserne parte vibrante. Questo simbolismo diventa materia quando vediamo, negli interventi inediti, i protagonisti ormai invecchiati, ed è una sensazione molto particolare quella di osservarli spesso nei video d’epoca e metterli a confronto, come in un gioco perverso sul tempo che passa. SanPa parla del nostro passato, ma racconta un possibile presente, perché in questo senso non è un’opera storica (nonostante il lavoro certosino nella ricerca delle fonti) ma un’opera puramente letteraria ed artefatta, che sa con saggezza cosa fare di quel materiale così potente e così offeso dalla polvere della storia.
Rivolgendosi a una piattaforma di utenza composta perlopiù da under 30, SanPa racconta questo passato malcelato a persone che quella storia non l’hanno né vissuta né, probabilmente, mai sentita. E’ questo tipo di utenza che ha deciso di decretarne il successo , forse abbagliata da questo racconto talmente simbolico ed universale da travalicare le epoche, e che contiene inoltre il fascino di una storia ignota, accaduta qui e in un tempo preciso e presto nascosta sotto il tappeto. Si potrebbe dire che l’interesse stia proprio nel fruire di una mitologia contemporanea, una storia densa di luci e di oscurità, di fatti ambigui e debolezze, di non detto e avvenimenti accaduti, al cui centro sta l’essere umano in tutta la sua triste nudità.
Per concludere con le parole di Cantelli, “la storia di San Patrignano è un concentrato simbolico pazzesco, perché c’è dentro tutto. Il potere, la vita, la morte, la sofferenza, la malattia: significati universali ed eterni che attraversano le epoche”.
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