top of page
Cerca
Immagine del redattoreRedazione

Breve storia della censura cinematografica italiana

C’è una frase che negli ultimi tempi sentiamo e leggiamo sempre più spesso: “Non si può dire più niente”. È come se attorno ai media italiani aleggiasse lo spettro del politicamente corretto, del moralismo e della censura. Sembra quasi che su Facebook, Instagram o Twitter ogni occasione sia buona per portare nuova acqua al mulino dell’indignazione di chi vede nel presente un’ondata censoria inarrestabile.


La libertà di pensiero e d’espressione, infatti, oggi sono i temi centrali di qualsiasi conversazione ed è curioso come, proprio in concomitanza con questo dibattito, negli stessi giorni sia stata decretata ufficialmente la fine della censura cinematografica nel nostro Paese, lo stesso che non di rado dimentica un intero secolo in cui in molti campi, specialmente artistici, effettivamente non si potevano diverse cose. A questo punto, prima di porci la domanda “siamo sicuri di non poter dire più nulla?” occorre fare un passo indietro.


Sicilia, anni ’50: in una piccola sala cinematografica durante una proiezione a porte chiuse, Don Anselmo suona fragorosamente la campanella ad ogni scena scabrosa proiettata sullo schermo. Siamo nel dopoguerra e il cinema è l’unico divertimento, l’unico momento per dimenticare i traumi e gli strascichi del conflitto. Il film in questione – capolavoro senza tempo – è Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Con questa simpatica scena, il regista premio Oscar ha raccontato la pratica della censura cinematografica, che in Italia ha avuto inizio il 25 giugno del 1913 con una legge che autorizzava il governo del Re a vigilare sulla produzione delle opere.


E così, mentre George Bernard Shaw definiva l’usanza di eliminare qualunque cosa fosse oltraggiosa per il buon costume un vero e proprio assassinio (molti anni dopo anche Federico Fellini definirà la censura una distruzione, un’opposizione al processo del reale), Giovanni Giolitti decideva di regolamentarla, inviando una comunicazione in ogni Prefettura italiana; nel documento sosteneva che dovevano essere fermati tutti i film che «rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo e altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio, ovvero di offesa al decoro nazionale». Da qui ebbe inizio il glorioso iter della censura, che in alcuni periodi storici raggiunse vette impensabili; stando alla norma, i film facevano la loro prima uscita in una sola città o in un piccolo centro e, una volta in sala, bastava la denuncia anche di un solo privato cittadino per far partire un procedimento che nella maggior parte dei casi portava al sequestro della pellicola. Ben presto, quello che nasceva come un “dovere di difesa e buon costume” si trasformò in una lotta alla supremazia della Procura.


È vero, la legge rispecchia l’epoca vissuta – per cui non dovremmo scandalizzarci più di tanto nel leggere dinamiche a dir poco grottesche – ma a quanto pare il bel paese ha continuato su questa scia anche nel 1951, quando Giulio Andreotti – incarnazione vivente degli ideali della Democrazia Cristiana e del perbenismo da telefoni bianchi – a proposito del film Umberto D. e del neorealismo italiano, un movimento culturale che fu precursore di tecniche mai usate ed estetiche mai esplorate sino a quel momento, dirà che al cinema non bisogna mai mostrare qualcosa di pruriginoso e che i panni sporchi si lavano in famiglia. In effetti, era meglio e soprattutto più sicuro presentare al mondo un’Italia leggera e spiritosa e non per com’era agli occhi di Zavattini, De Sica, Rossellini e Visconti: povera, disgraziata, distrutta dalla dittatura, ma vera.


Umberto D.

Insomma, è chiaro che nel corso degli anni è cambiata la forma, ma la sostanza è rimasta pressoché invariata. O almeno fino al 5 aprile 2021. Perché la censura che il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha definitivamente abolito, sostituendola con la valutazione del bollino per l’età, è forse la manifestazione più concreta di quanto la discussione sulla libera espressione abbia radici ben diverse da quelle dei social, senza dubbio lontane dai decenni di Giulio Andreotti. E allora capiamo bene che il semplice fatto di disporre di un social network o di una trasmissione televisiva che ci consente di dire che “non si può dire più niente” vuol dire l’esatto contrario, perché in realtà possiamo dire di tutto.


Sono tanti i film che nel corso degli anni sono stati tagliati o, nel peggiore dei casi, proibiti; film che nonostante gli sgambetti, sono riusciti ad imporsi, diventando veri e propri cult. Come ad esempio Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, simbolo del conflitto tra censura e libertà d’espressione artistica, che fu denunciato, condannato, bruciato e poi riabilitato, o La Grande Abbuffata di Marco Ferreri, agghiacciante e disperato apologo sulla deriva dell’uomo contemporaneo.


La Grande Abbuffata

Erano gli anni della commedia all’italiana, dove il lieto fine e la facile risata facevano da padroni nei soggetti e nelle sceneggiature dei film portati in sala. Marco Ferreri, seppur si possa definire un autore a suo modo comico, costruiva le sue opere offensive sull’ironia e sulla forte polemica contro quello stesso pubblico borghese che affollava i cinema di allora; risultava quindi difficile – se non addirittura impossibile – creare empatia tra lo spettatore e il film; ma Ferreri non voleva alcuna conferma, e per questo motivo fu fortemente criticato, distrutto dalla censura e fischiato a Cannes durante la proiezione.


Tuttavia, il regista che in Italia divenne il bersaglio prediletto della pratica censoria fu Pier Paolo Pasolini.



Fuggito dal Friuli dopo essere stato licenziato dalla scuola media in cui insegnava – in seguito al processo per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne - si era rifugiato a Roma per proseguire con la carriera di scrittore; ma i contenuti arditi delle sue opere gli valsero presto l’accusa di oscenità.

Il primo film diretto da Pasolini è Accattone, il quale, pur non avendo ottenuto il visto della censura, fu duramente contestato soprattutto durante la prima al cinema Barberini di Roma, in cui un gruppo di neofascisti tentarono di impedirne la proiezione lanciando finocchi e bombette di carta tra il pubblico. La brutale fotografia dello squallore che solo la povertà può generare, toccò una ferita aperta nella coscienza dell’epoca, e per questo motivo, fu il primo film italiano vietato ai minori di 18 anni.


Accattone

Anche Mamma Roma subì una sorte affine e a seguire La ricotta, inserito all’interno del film in quattro episodi Ro.Go.Pa.G, sigla derivata dai nomi dei registi Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Ambientato su un set cinematografico nel quale si sta girando La Passione di Cristo, La ricotta fu sequestrato il giorno della sua uscita e Pasolini fu accusato per vilipendio alla religione di Stato e per questo condannato a quattro mesi di reclusione. Soltanto dopo alcuni anni il film tornò sugli schermi con tagli e modifiche, oltre all’eliminazione di frasi come “Via i crocifissi” ed espressioni come “Cornuti!”, considerati lesivi della moralità.


La ricotta

Ma a subire la stessa sorte furono tanti altri film, come Il portiere di notte di Liliana Cavani, ambientato in una Vienna decadente e post-nazista; censurato, tagliato e bistrattato, il film è un inno alla libertà espressiva e un duro attacco al revisionismo storico che insabbia gli orrori dei lager nazisti.


O ancora Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Il film del 1960 con Alain Delon (Rocco), Renato Salvatori (Simone), Annie Girardot (Nadia) e Claudia Cardinale, premio speciale della giuria alla mostra di Venezia, uscì in un periodo di piena trasformazione per l’Italia. Il Paese era ormai proiettato verso il boom economico e a causa di questi cambiamenti, i conflitti ideologici tra progressisti e conservatori riesplosero. In questo clima anche Visconti, nobile e paradossalmente marxista, sentì il bisogno di approfondire il discorso sulla società italiana; proprio da questo impegno nacque la realizzazione di Rocco e i suoi fratelli, un film che scosse profondamente le coscienze del Paese, suscitò polemiche a non finire e riportò nuovamente, insieme a La dolce vita di Federico Fellini e L’avventura di Michelangelo Antonioni che, unitamente al film di Visconti formano una sorta di trilogia sull’Italia del boom economico, il cinema italiano al centro del dibattito internazionale.


Ancora una volta, come ai tempi di Ossessione e Senso, un film di Visconti divenne un casus belli che divise non solo la critica ma anche la politica. Tuttavia in occasione di Rocco e i suoi fratelli la battaglia fu molto più dura e aspra: Visconti fu messo sotto processo, da cui ne uscì assolto solo sei anni dopo, fu imposta all’opera un divieto ai minori di anni 16 e la censura obbligò il taglio di sei minuti di pellicola.


Rocco e i suoi fratelli

Ultimo film che ha subìto l’oscurantismo degli anni ’60 è stato Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco, gli unici registi siciliani che hanno saputo fotografare in maniera precisa una Sicilia ripulita da cannoli, cassate e carretti, tirandone fuori gli aspetti più disgustosi e miseri. Per questi motivi denunciarono nel film “lo squallore di scene chiaramente blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale, di violenza gratuita e di sessualità perversa e bestiale, con sequenze laide e disgustose”.


Scrissero così i censori. E fu subito scandalo. Da allora, nessun altro film italiano ha saputo essere così scandaloso; siamo scivolati, senza neanche accorgercene, nello scandalo di un cinema incapace di scandali: un cinema rispettoso, beneducato, conforme e conformato. Un cinema incapace di influire sul sociale e di dare una scossa all’immaginare collettivo. Non a caso, da molto tempo, gli scandali non riguardano più i film, ma il gossip che li circonda.


Totò che visse due volte

Ma intanto è stata posta una prima pietra con il decreto di Franceschini. La novità maggiore è che non potranno più esservi veti censori che impediscano l’uscita di un film in sala o impongano tagli all’opera: la sacralità dell’autore viene finalmente rispettata.


Ma il provvedimento riveste una grande importanza soprattutto dal punto di vista culturale, perché segna la fine di una visione statuale che trattava gli spettatori come sudditi più che come persone in grado di scegliere o meno se recarsi a vedere un’opera in quanto blasfema, oscena o tremendamente reale.

Forse un altro cinema italiano è possibile.


A cura di Federica Vinciguerra





Comments


bottom of page