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Immagine del redattoreLibertino Alaimo

L’esordio de I Cani: 10 anni dopo

Il 3 giugno del 2011 un album di 36:47 minuti squarciava il panorama musicale italiano come i tagli sulle tele di Fontana. Sotto l’egida del nome “Il sorprendente album d’esordio de I Cani”, un semi-sconosciuto 25enne romano, Niccolò Contessa, pubblica la versione digitale dei suoi primi lavori musicali, già annunciati col successo dirompente dei singoli Wes Anderson e I pariolini di 18 anni sul celebre (per quegli anni) portale Soundcloud.


L’album, prodotto dall’etichetta indipendente 42 Records, si compone di 11 brani pervasi da una sorta di punk ovattato, con suoni semplici e ossessivi e una patina elettronica fatta di sintetizzatori: il ritmo è catchy, i ritornelli sembrano scritti per la dimensione live, la voce è fredda, lontana, senza intonazione. A colpire sono soprattutto i testi, cinici e disillusi, con parole che cercano di avvolgere di un senso le storie della generazione degli anni Zero già cantati da Vasco Brondi pochi anni prima, nel 2008, con Canzoni da spiaggia deturpata, album che potremmo definire quasi “cristologico” per l’influenza che ha avuto sulla storia della musica indipendente italiana e sulla poetica di Niccolò Contessa.


Come Brondi con Le luci della centrale elettrica, Contessa si definirà con un nome plurale, I Cani, mettendo in piedi già in principio una finzione scenica che culminerà con la celebre busta in testa, a celare l’identità, presentato nei primissimi live. La busta sarà più una trovata filosofica: veniva tolta dopo qualche canzone, come a dare la sensazione che non servisse una faccia interessante per raccontare se stessi e il proprio mondo.


L’album fa un successo immediato, uscendo facilmente dai confini romani a cui l’autore attinge in modo continuo e ponendosi ad involontario inno generazionale. Contessa decide, in sede iniziale, di non mostrare il proprio volto, autonarrandosi attraverso le piattaforme digitali e le sparute fotografie (rigorosamente polaroid) ufficiali, che mostrano alternativamente un cane, o un tizio con una busta del pane in testa. L’autore giustificherà in modo esaustivo questa scelta in un’intervista a L’Unità:

Vediamo ogni giorno troppe band, troppi nomi, troppi servizi fotografici, troppe facce. Credo che il pubblico sia desensibilizzato all'immagine di band e alla rappresentazione classica di band, quindi conviene puntare su altro, ad esempio foto di cagnolini”.

Contessa sceglie una copertina stranissima, una foto che sembra scattata da un passante curioso: alcuni ragazzi, in quello che sembra un boschetto, si aggirano attorno alla figura centrale, una donna dallo sguardo perso, legata con corde e nastro adesivo ad un albero. Un’immagine visivamente violenta e disturbante, di difficile interpretazione, con nessuna informazione su autore o titolo -è difficile pure capire che sia una copertina di un album, a dirla tutta-. Contessa dirà poi che la foto “è un richiamo, come tutto il disco, è un ritratto duro dell’adolescenza, di come sia difficile avere venti anni. Adesso come prima, non volevo che passasse il concetto per cui ora essere adolescenti sia più difficile di prima. Anche se, tra social network e tutto il resto, in fondo lo credo anch’io”

La copertina de Il sorprendente album d’esordio de I Cani, tratta dalla foto scattata da Lorenzo Tordelli e Paola Schiattarella.


La formazione dell’hype prima dell’hype

Tutte queste scelte, apparentemente controintuitive, contribuirono a smuovere curiosità e supporto attorno al fenomeno I Cani, un fenomeno che sfruttava appieno dinamiche oggi ampiamente usate e conosciute (pensiamo, ad esempio, al successo di artisti come LIBERATO o Tha Supreme), peraltro in un mondo di internet ancora relativamente piccolo, e imparagonabile ai numeri di oggi. Si tratta di uno dei primissimi casi di hype totalmente generato sul mondo dei social: la scena indipendente italiana, solitamente abituata ad un target di appassionati ristretto e fedele, si ritrova improvvisamente i riflettori puntati.


In quel momento, probabilmente, nacque l’It Pop (dove “it” sta per “italiano”, alla stregua del celebre modello inglese del britpop), il nuovo sottogenere simbolo della cultura di massa degli anni Dieci. Gli epigoni, in senso filosofico e/o musicale, saranno molti: tra gli altri Calcutta, Gazzelle, Thegiornalisti, tutti autori provenienti dalla stessa scena romana, tutti autori con un successo mainstream impensabile fino a pochi anni prima. Nessuno di loro prenderà a piene mani da I Cani: i testi vengono “alleggeriti”, le canzoni non hanno quell’afflato esistenziale disperato, pur mantenendo quel gusto per la poetica delle cose comuni, l’ironia pungente e l’uso dell’elettronica. Il vento era cambiato, come il gusto stesso dell’ascoltatore medio italiano, che cominciava a digerire sonorità e testi a cui non avrebbe dato un cent, fino a pochi anni prima.


C’è da dire che Contessa dovette scontrarsi con alcune critiche: molti esperti del settore rimproverarono in special modo la troppa semplicità dei testi, tacciati di raccontare solo una sorta di “poetica del disadattato”, una narrazione che all’epoca non era ancora entrata prepotentemente nell’immaginario generalista come oggi, dove si trova “disadattismo” glamour e ansia da superficie in ogni lembo della cultura popolare. Altri lo accusarono di essere un puro fenomeno mediatico, di poca sostanza, che non avrebbe retto la dimensione live e le aspettative. In realtà l’album, oltre al favore sempre crescente del pubblico, ottenne un onorevole terzo posto al Premio Tenco come miglior album di esordio per un cantautore. Contessa farà uscire altri due dischi di buon successo (Glamour nel 2013 e Aurora nel 2016), che ne decreteranno la dimensione definitiva: dopo dieci anni, I Cani sono diventati una specie di cult band, e leggere gli sprezzanti pareri dell’epoca è sempre un esercizio molto divertente.


Se dal punto di vista prettamente musicale i Cani non possono dire di aver avuto dei diretti discendenti, non è possibile negare come abbiano fatto da apripista al racconto di una generazione instabile e precaria che, mentre si autocelebrava sui social, accumulava nel cuore disillusioni, velleità frustrate, sogni incerti, relazioni senza futuro. Lo scrittore Roberto Saviano, tra le personalità più note ad essersi espresse sul progetto, trovò le parole perfette per definire il particolare rapporto tra I Cani e il racconto di una generazione: “Le loro canzoni sono tra i migliori racconti sul nostro Paese. Antropologia elettronica”. Da questa lettura “impegnata” sarà però lo stesso Contessa a defilarsi, in una intervista concessa alla rivista Il Mucchio Selvaggio nel 2011:

Non ho fatto che parlare del mio ambiente e delle cose che avevo conosciuto in prima persona. Non mi è mai passato per la testa di essere il portavoce di una generazione o di una città.

La musica de I Cani, seppur evidentemente in modo involontario, è stata dunque capace di toccare un nervo scoperto e di dare ad una mandria di ventenni un proprio Omero che raccontasse anche queste esistenze di poco senso, più parlate che vissute, più immagine che corpo.


Radiografia di un cult

Il sorprendente album d’esordio è un disco grezzo, sporco, come solo alcuni titoli punk sanno essere. Lontano da ogni parvenza fashion che oggi gli verrebbe attribuita – si pensi a come velocemente sono stati “ripuliti” e resi vendibili artisti giovanissimi e spigolosi come Madame – il disco dimostra tutta la sua provenienza artigianale: i suoni sono striduli, la voce appare distante, come se provenisse da galassie lontane, le percussioni sono algide ed ossessive. Il “punk da cameretta”(due tracce sono registrate nella casa dell’autore) di Contessa funzionava proprio per questa semplicità ingenua, che sembra fuori da ogni controllo di uffici di marketing e studi di registrazione sofisticati. Due sono i brani prettamente strumentali (Theme from the cameretta – appunto!- , che apre l’album, e Roma Nord), utili a spezzare il ritmo incalzante di un disco che sembra voler bruciare velocemente e in modo spettacolare: le pause sono pochissime, le canzoni sono brevi, i ritornelli entrano in testa con molta facilità. Contessa crea un calderone di epifanie che somigliano a una pozione magica medievale: è molto difficile non essere attirati al primo ascolto, da qualunque cultura musicale si provenga, e per questo le canzoni del sorprendente album arrivarono anche negli smartphone e nei lettori musicali di un pubblico molto più grande e variegato di quello che ci si aspettava.


Eppure Contessa, già nella prima traccia “cantata” dell’album, Hipsteria, si rivolge ad un target molto ben definito e circoscritto: giovani tra i 20 e i 25 anni, istruiti, universitari, preferibilmente fuorisede e pieni di soldi dei padri. La cosa curiosa è che quindi, quando parliamo di progetto generazionale, dobbiamo tener conto del fatto che I Cani possono essere chiamati tali nonostante fosse molto difficile, per una buona parte di ascoltatori, autodefinirsi in quello che veniva cantato nei testi. La figura dell’hipster che dà il nome al titolo, emblema mitologico dell’immaginario sociale di quell’epoca (e qui si sente il solco con i dieci anni passati), viene sviscerata e derisa, e la scrittura di Contessa uscirà talmente in bilico tra il serio e il faceto da fidelizzare ascoltatori provenienti da quel tipo di “posa” che gli stessi testi prendono in giro: un successo da ogni punto di vista.



Emergono tra le righe, sempre, ritratti di una generazione desacralizzata, tendente fino alla nausea al materialismo, anche del sesso, qui spogliato da ogni artificio retorico (nel testo, l’io narrante si rivolge a questa fantomatica Caterina, donna-poser colma di luoghi comuni, accusandola di essere troppo poco “attraente” per meritare delle attenzioni particolari).


Il video di Hipsteria, il primo ufficiale de I Cani, completa i tòpoi narrativi espressi nella canzone: la clip viene montata attraverso una serie di fotografie realizzate dal collettivo Art Cock ed elaborate con l’applicazione per IPhone Hipstamatic (effetto sgranato, parvenza da polaroid, colori saturi). Al video partecipano gli ancora sconosciuti Luigi Di Capua del collettivo dei The Pills e la cantautrice Margherita Vicario, che offre la propria casa di Roma per le riprese (suo è, oltretutto, il cagnolino del video, Sabbia, che rimarrà immortalato nell’immaginario collettivo come “il cane de I Cani”).


La sensazione, nel 2011, era quella di dare uno sguardo voyeuristico sui protagonisti del video, che venivano osservati nei loro momenti più disparati, da una prospettiva troppo vicina, molto intima: nell’idea degli autori, è il modo impacciato in cui i post-adolescenti cercando di comporre e costruire la loro immagine attraverso le vetrine social, in un mondo in cui questa dimensione virtuale comincia seriamente a sostituire gli altri universi esistenti. Oggi, probabilmente, la carrellata di diapositive di cui si compone il video ricorda una delle tantissime serie di stories di Instagram: come se ci fossimo, in questi dieci anni, quasi abituati a questo nostro sguardo, che prima vedevamo come invasivo nelle vite degli altri. Contessa coglie un momento sociale in divenire, e quasi anticipa i nostri tempi: questo avviene più e più volte lungo tutte le tracce dell’album, in modo stranamente inquietante.


Altra traccia molto nota, e fortemente rappresentativa dell’identità dell’album, è Door Selection. Dietro la descrizione del flusso di pensieri interiori di un ragazzo in fila per l’ingresso in una discoteca, Contessa ci racconta maschilismo tossico e repressione sessuale, mostrandoci una società violenta che gira tutta attorno al Sacro Miraggio del Sesso (“la gente ha la faccia aggressiva, è qui per scopare, non vuol fare brutta figura”), ed è curioso notare che il già citato Luigi Di Capua dei The Pills, nel celebre video Il dubbio, uscito qualche anno dopo, esponga esattamente le stesse teorie ciniche sul sesso proposte nella canzone, seppur in una chiave più leggera e comica. Il rimando sembra molto più che una semplice coincidenza: “studiare, laurearsi, fare carriera, lavorativa o artistica. E quindi le arti figurative, la scienza nel suo senso più alto del termine, la fisica quantistica, la filosofia. Tutto questo è fatto con la finalità di scopare, no?”.



Con la sensibilità dei nostri anni, è difficile non notare quanto il sesso -naturalmente iper-problematizzato e fuori dai rassicuranti confini cantati dalla musica leggera- sia uno dei principali punti focali dell’album: i personaggi che vengono presentati nelle canzoni vorticano attorno a questo unico grande scopo, naturalmente in modo totalmente disadattato e malforme, come l’improvvisato produttore viscido di Post Punk (“Si definiva anarcoide, si vestiva come un impiegato. Frequentava soltanto ragazzini liceali. Ogni tanto provava a parlare di sesso: capivo dove voleva arrivare e cambiavo argomento”) o la povera protagonista di Perdona e Dimentica (“Vergognati del sesso, e non perché lo hai fatto, ma per averlo usato sempre e soltanto come merce di scambio”).


Il disco dunque affronta un diorama completo delle tematiche e della zoologia umana degli anni in cui viene pubblicato. In qualche modo dovremmo guardare all’album come a un prodotto quasi archeologico, una sezione di storia culturale italiana palesemente visibile, che ci fa riflettere su cosa siamo stati negli anni Dieci e su quanto poco ci siamo accorti di essere invecchiati. In Velleità, traccia numero quattro, Contessa intesse il testo di citazioni pop contemporanee attraverso una studiata elencazione ossessiva. È scioccante notare come tutto l’elenco sia colmo di fenomeni, concetti e luoghi già irrimediabilmente scaduti e desueti: il blog, i “falsi nerd con gli occhiali da nerd”, il successo di Vasco Brondi, il Circolo degli Artisti di Roma (luogo simbolo della musica indie della Capitale, irrimediabilmente chiuso da anni). Simboli decaduti troppo presto, molto velocemente, bruciando come brucia ogni canzone dell’album: qualcuno ha parlato di scrittura post-modernista, e in effetti si può intravedere proprio nella sorte effimera di questi emblemi, desacralizzati e consumati.



Eredità e prospettive

La produzione di Contessa sotto l’etichetta de I Cani è notoriamente ferma a tre album, e la fantomatica uscita del quarto disco – mai annunciato, ma anche mai smentito- è talmente aspettata da essere diventata ormai un meme di internet, alla stregua dell’attesa infinita dei Tartari nel celebre romanzo di Dino Buzzati. Intanto Contessa è apparso raramente in pubblico, preferendo piccole comparsate come quella dello scorso Maggio nel programma Una pezza di Lundini, dove in una gag annuncia di voler suonare il nuovo brano inedito de I Cani, prontamente interrotto dal conduttore Lundini che chiede qualcos’altro, “purché non sia de I Cani”.

La fiamma dell’hype del progetto, già radice del grande successo del Sorprendente Esordio, accompagna anche le sparute pubblicazioni degli ultimi anni (come Nascosta in piena vista del 2018 e Alla fine del sogno del 2020) che sembrano sempre promettere un lavoro imminente che non arriva mai. L’ultima impronta musicale e filosofica su questa terra di Niccolò Contessa -una sorta di manifesto poetico definitivo- è uno straniante video a metà tra il monologo e la musica elettronica, UN ALTRO DIO, lavoro pubblicato all’improvviso in una calda giornata di luglio del 2021 dal canale youtube icaniband.


Allo stesso modo con cui era misteriosamente apparso dal nulla, Contessa sembra voler giocare con le attese che si sono gonfiate nel corso degli anni, scegliendo un profilo defilato, dietro le quinte, come il lavoro di compositore per gli album di Coez Faccio un casino ed E’ sempre bello o la produzione dei brani del giovane musicista romano Tutti Fenomeni (per la stessa etichetta 42 Records del sorprendente album di esordio), di cui si sente fortemente l’influenza filosofica e musicale.

L’eredità che ci lascia un disco come Il sorprendente album d’esordio è indubbiamente stata importantissima per la costruzione della scena pop italiana degli ultimi anni, seppur Niccolò Contessa sia stato un personaggio outsider nella scena, preferendo sempre una visibilità rarefatta e poco pop, lasciando i riflettori a tutti gli altri autori successivi che da lui, volenti o nolenti, hanno preso qualcosa. La scena è cambiata, il dramma esistenziale si è prosciugato lasciando campo a canzonette leggere e con poche pretese, svuotandosi di quella necessità impellente di raccontare il senso di un dato periodo storico e sociale; persino il sesso si riduce a poco più che un gioco divertente e scanzonato, fino ad arrivare al Calcutta di “tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande”.


Il successo de I Cani, alla luce di questi dieci anni, deve ritrovarsi non tanto nella prosecuzione testuale e musicale, quanto nella enorme spinta che questo primo album ha dato al mondo della musica indie italiana, sfondando la porticina di nicchia in cui era relegato fino ad allora, diventando perfettamente contemporaneo, glamour, capace di scommettere sui nuovi mezzi di promozione e diffusione (social, youtube, hype) e vincere questa sfida con un album suonato interamente a casa e con una busta del pane in testa. Contessa e il suo lavoro hanno fatto da precursori per un’intera generazione di artisti che ora affolla le arene e riempie i palinsesti radio, e lo hanno fatto nell’unico modo da I Cani possibile: indicando la via, e mettendosi da parte il prima possibile.


A cura di Libertino Alaimo


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