Da quasi tre anni ad Agrigento esiste una band che è più di una band, come a loro piace definirsi.
Sono bastati pochi secondi di un video: un ragazzo su un water si diletta con un sax tenore, ma in sottofondo si sente un assolo di chitarra beffardo; in trasparenza la corsetta di un secondo personaggio, sul filo del tamarro, inseguito da un’ulteriore presenza ascetica che compare, pensosa ed eremitica.
La descrizione non rende: guardate il video. Ah, la canzone è Sognami, di Biagio Antonacci.
Ecco: nel giro di pochi secondi i PVM hanno catturato la mia attenzione. Due anni fa, con l’avanzare dell’estate, vedevo pubblicare brevi spezzoni dei loro live, sempre più frequenti e sempre più diversi da quanto avevo mai visto: un carnevale di arrangiamenti e mash-up di ogni sorta, conditi da un’attitudine straordinaria alla parodia e alla beffa.
Agrigento, con la sua spiaggia, e diversi comuni della sua provincia iniziano ad ospitare i loro eventi. Nel frattempo anche il loro primo singolo, U Pattu du Cannatè, che sigilla un forte legame col territorio agrigentino, conferma il loro manifesto: più che una band.
Preso da una dissoluta voglia di saperne di più, comincio ad ascoltare tutto quello che si riesce a trovare sul webbe terracqueo (neologismo che fa riferimento a Orbe terracqueo): nel corso del tempo si accavallano locandine sui generis, deliri elettronici su SoundCloud, simpatiche registrazioni home-made e finalmente altri due singoli: nel 2020, tra una catastrofe e l’altra, esce Fake News; qualche settimana fa ecco Anime (a) salve, in collaborazione con il rapper agrigentino Ares. Entrambi sono una sorpresa: ben lontani dal motivo che mi aveva spinto a seguirli, mi spiazzano e mi incuriosiscono.
Insomma: se con i live i PVM creano la loro fan-base locale, con i singoli arrivano anche oltre: non sanno che anche a Torino, dove scrivo e studio, cominciano ad acquisire qualche fan, per mia volontà di condividere questo compimento genuino della deriva POP, in cui tutto si mescola a tutto per acquistare un nuovo significato.
Nel percorso che dalla loro formazione mi ha portato ad intervistarli, si inserisce un momento cruciale.
E’ l’agosto del 2019 e per la prima volta ho l’occasione di vederli suonare dal vivo: un tripudio di goliardia e no-sense, all’apparenza. Vengono rispettosamente dissacrati molti dei grandi successi della musica italiana, con un atteggiamento canzonatorio perpetuo ma mai ripetitivo e soprattutto mai ingenuo. Intuisco che non si tratta di una semplice caricatura di brani arcinoti e che probabilmente sono dinanzi alla mia band preferita; metabolizzo il tutto, chiedere ai diretti interessati tutte le mie curiosità è una naturale conseguenza.
Questa intervista doveva inizialmente essere una cosa diversa: uno scherzo, quasi, sulla falsa riga delle loro performance, il che spesso corrisponde al mio naturale modo di pormi. Allo scherzo si sono poi aggiunte delle domande molto più tradizionali. Alla fine è stata una bella disamina, un’introspezione, una domanda fondamentale sul motivo vero per cui esistono e continuano ad esistere.
Eccoli, entrano: il mio tono cambia, dopotutto si tratta della mia band del cuore. Non mi resta che presentarli.
Ruben (basso e voce, alchimista), Paolo (batterista, filosofo e pilota di mecha) e Pier Paolo (chitarre, tastiere e minchiate), amano gli accostamenti tra Nicola Arigliano e i mai banali assoli "pinkfloydiani", hanno un beat fedifrago e fosforescente, rilasciano interviste assai di rado, si esibiscono con una maschera che con me non hanno indossato, consentendomi di conoscere il loro vero volto e di comprendere che non mi temono.
Perché vi siete scelti? Perché proprio voi tre? C’è una ricerca precisa dietro questa formazione o è semplicemente capitato? Insomma, come vi siete messi insieme?
P: E’ interessante il fatto che tu abbia detto che ci siamo messi insieme, perché è letteralmente quello che è successo…
R: Un rapporto abbastanza etero, però, nonostante le apparenze. Conoscevo Paolo personalmente, perché in passato abbiamo avuto dei trascorsi in altre band, e sapevo quindi dei suoi gusti musicali un po’ strani. Già nel 2015 lo avevo contattato per fare un gruppo alla Royal Blood, mettendo giù qualche idea, una scaletta… poi i rapporti si sono un po’ raffreddati, io abitavo fuori e di fatto non c’erano le attrezzature musicali per reggere la creazione di un gruppo. Negli anni ho conosciuto Pier Paolo che, al contempo, personalmente ma soprattutto musicalmente, mi piaceva e mi dava fastidio.
Ad un concerto di Damien Rice, quindi, ho rivisto Paolo dopo tempo, e ho subito pensato sarebbe stata una bella idea metterli insieme. Al primo incontro è scattata la scintilla, ha funzionato sin da subito.
Quindi tutta colpa di Damien Rice…
PP: Però una cosa la vorrei dire: IO NON ERO AL CONCERTO DI DAMIEN RICE. Io ero a CASA MIA, e mi sono ritrovato un messaggio di Ruben con scritto “ Compà, vuoi suonare in un gruppo? Dimmi subito sì o no”.
Però devo farti una confessione: avevo visto Paolo su Facebook e qualche volta in giro… non mi piaceva, avevo paura. Ho preso come impegno personale quello di allontanarlo dalla sua vecchia vita, capisci?
Chiaro, un tipo losco. Ma da cosa nasce l’idea di questo continuo esperimento di mash up, di riarrangiare i brani fino alla beffa e al grottesco: desiderio di divertire, sorprendere il pubblico o siete semplicemente dei fenomeni da baraccone, schiavi di un mostro che vi divora dentro e vi tormenta da quando siete bambini? (Se volete parlarne io ci sono e ci sarò sempre). Andando un po’ a memoria c’erano Storia d’amore di Celentano con i Talking Heads, qualcosa con i Franz Ferdinand… anche le vostre versioni di Splendido Splendente, di Che cos’è l’amor…
P: Questo è forse il vero motivo per cui ritengo i PVM un progetto così interessante, è l’elemento fondamentale. All’interno di una persona ci sono più personalità, allo stesso modo all’interno di un gruppo: considero Pier Paolo fondamentalmente un fenomeno da baraccone, mentre Ruben è il leader che capisce quello che dice Pier Paolo e lo traduce; io sto dietro le quinte e gestisco, cercando di dare un significato più profondo alle minchiate che vengono fuori.
PP: Molto viene anche dal fatto che quando ci siamo formati, nel 2018, andavano di moda le serate “all’italiana”, in cui l’unico modo per portare davvero il rock erano i mash-up, cosa che, ci siamo accorti, a voi veniva quasi naturale. A questo si aggiungevano i pareri e gli entusiasmi nel pubblico, riassumibili in una domanda che spesso ci pongono: “ma come $%£&@& vi è venuto in mente!?!?!?”
E a proposito di questo: qual è la cosa che in assoluto vi manca più del live?
R: L’adrenalina
PP: Gli imprevisti
P: Troppo difficile…
PP: Non dire i soldi!
“Troppo difficile” è comunque una buona risposta
PP: Però mi piacerebbe che le persone sapessero che non è tutto rose e fiori, ci sono stati fallimenti.
R: Volevamo unire “Ti scatterò una foto” a “Black Dog” dei Led Zeppelin: prima il riff di questa, poi nel cantato gridare “Ti sposerò perché non te l’ho detto mai… “ ma è stato un fallimento di sette ore di sala prove. L’idea era così bella che non ci potevamo arrendere… ma non è uscita, purtroppo.
Ma ditemi, quello che fate voi lo avete mai visto fare a qualcun altro? E quando eravate più giovincelli avevate in mente di fare qualcosa di questo tipo, o sognavate un gruppo diverso?
PP: Io prima di vedere loro non pensavo all’idea di avere un gruppo, suonavo nella mia camera, facevo cose tutte mie. Non ritenevo me all’altezza di suonare in un gruppo né che un gruppo avrebbe potuto capire quello che volevo esprimere.
P: Io ho sempre suonato per i fatti miei, come one-man-band. Con altre persone ho imparato a costruire canzoni, ma ho sempre ritenuto la musica un fatto molto intimo. Il primo progetto serio che ho avuto è stata una mia one-man-band appunto, ma non pensata per il pubblico: diciamo una terapia personale. Poi, conoscendo loro due, ho capito che si poteva mescolare queste cose in modo da dare un significato e fare in modo che gli estroversi si occupassero della parte per me più pesante.
Quindi lasci agli altri il lavoro sporco…
P: Quale sia il lavoro sporco dipende dai punti di vista…
R: Io ho sempre pensato di avere una band e nel mio percorso, sin da adolescente, ne ho sempre avute tante. Una cosa che mi dava soddisfazione, mi appagava: l’ho sempre cercata. Prima dei PVM ho avuto però una fase di stallo e, per un anno e mezzo, dopo aver avuto più di dieci band, ho suonato da solo, quasi un blackout. Poi la fiamma si è riaccesa.
Comunque in giro avevo visto qualcosina. Rimasi stupito della cover che fecero i Royal Blood di Happy, uno dei successi di Pharrell Williams. Devastante. E’ stato forse il motivo che mi fece chiamare Paolo, all’epoca. Ma per il resto noi ci abbiamo messo quasi tutto di effettivamente nostro, originale.
PP: Il riassunto è NO, non conosciamo qualcuno che faccia quello che facciamo noi.
R: Io sì, forse non te l’ho mai detto…
PP: Ma chi, dove? Nomi e cognomi voglio!
R: Nomi e cognomi?
PP: Sì, rimangono per il direttore …
QUESTO FRAMMENTO NON E’ ATTUALMENTE DISPONIBILE. DA QUESTO MOMENTO, PER MOTIVI DI COPYRIGHT, PIER PAOLO CAMBIA NOME IN LADY ARCOBALENO, ABBREVIATO “L.A.” COME LA BELLISSIMA CITTA’ DI LOS ANGELES, CHE PERALTRO VI CONSIGLIO DI VISITARE.
Attacchiamo il sistema: cosa non vi piace dell’industria musicale, del mondo della musica eccetra eccetra?
R: Penso al modo in cui possiamo inserirci. Capisco le motivazioni per cui si è sviluppato così com’è, non mi dà fastidio. Mi interesso alla questione per capire, ma non cambierei qualcosa. Se potessi, direi “Mettete noi al primo posto e poi tutti gli altri”, ma non è così semplice.
P: Anche per me è così. Prima di arrivare ad avere rapporti con un’etichetta discografica, che mi sembra davvero un passo successivo, dovrei iniziare a dare ancora più energie a questo progetto. Prima di arrivare lì voglio essere sicuro di aver fatto di tutto per avere una buona fan base e un buon prodotto che possa difendere il gruppo e la sua idea. Soltanto dopo questo potrò interessarmi di cosa non vada nel mondo del mercato musicale.
L.A. : Esatto, non so dove finiscano le colpe delle case discografiche e dove inizino invece quelle del pubblico, che poi detta il tutto. Se potessi davvero cambiare qualcosa forse sarebbe la testa dell’utente medio.
Credo sia una risposta ragionata, che forse avevate già da un po’.
Ditemi: se la vostra vita fosse un film, quale sarebbe?
P: Ma tu ce le devi dare prima queste domande…
R: Io ti dico che non guardo film. Mi addormento: è un mio difetto. Dopo 15 minuti mi addormento. Gli amici dicono “Ma no, questo devi vederlo per forza…”, mi pizzicano quando inizio a cedere… ma mi addormento pure al cinema. Comunque ti direi Jurassic Park.
Perché è l’unico che hai visto?
R: Esatto, da piccolo.
P: Ci sto ancora pensando…
R: Eh ma non ci devi pensare troppo, altrimenti non esce…
P: Continua a venirmi in mente 8 Mile…
L.A.: A me piacerebbe che fosse Interstellar
Se la vostra vita fosse una canzone, quale vorreste che fosse?
R: Direi “Il nostro caro angelo” di Battisti.
P: Ti posso dare la posizione dell’album, il nome del gruppo… è giapponese…
[qui mi sono arreso, tanto non la conoscete, però provate a cercarla, se ci riuscite. Ho lasciato tutto in un certo posto…]
L.A.: Let it Happen, Tame Impala.
E invece (poi smetto) se il vostro live fosse una canzone, quale sarebbe?
R: Una versione metal di Elio e le Storie Tese, credo.
P: Il full live di “Murder of the Universe” dei King Gizzard & the Lizard Wizard
[n.d.r. esatto, signori, qua stiamo parlando con dei professionisti, se non si fosse ancora capito].
L.A.: Quello degli Idles al Bataclan, hanno buttato le chitarre in mezzo alle persone, non si capiva più nulla…
Ma c’è vita nell’universo o no?
P: Sì, mi piace sperare di sì, nonostante alcune teorie dicano di no.
L.A.: Sì, ma questa cosa mi fa paura.
R: Molto probabile di sì.
Adesso veniamo al vero motivo per cui siete qui: farvi pubblicità e godere della fama eterna. E’ uscita Anime (a) Salve, una collaborazione con il rapper Ares. Come l’avete scritta? Come scrivete di solito?
P: Dopo esserci incontrati ci siamo visti in studio, per fare una bozza. La stessa sera abbiamo discusso dei temi… è uscita una bella riflessione. Poi Adriano (Ares) e Ruben hanno scritto il testo, ciascuno la sua parte.
Di cosa parla? Io l’ho decriptata come una domanda fondamentale sull’esistenza e sulla solitudine, che forse è il momento in cui siamo più sinceri e spaventati della nostra esistenza. Che dite? Voi come l’avete interpretata?
R: Eviterei di fare una parafrasi. E’ un testo scritto dopo tante riflessioni che si accumulano ed escono come flusso di coscienza. Se mi mettessi a pensare perché ho messo ogni singola parola dopo un’altra probabilmente riuscirei a spiegare tutto, ma ci sono così tante cose dietro che… ecco, il tema è la visione che abbiamo di noi stessi. Come cambia, come la giustifichiamo, è un complesso dell’essere umano. Parla di cosa siamo.
P: E io la interpreto come la normalizzazione di questa cosa: tutti abbiamo questi conflitti, ed è una cosa normale.
L.A.: Io la interpreto così: ci sei tu che ti senti un cazzo e mezzo, arrivato, poi succede quella cosa che ti fa capire che cazzo, minchia, non sono nessuno. Poi ti risenti di nuovo un cazzo e mezzo… una ruota che gira.
** ci dovevate essere, quest’ultima risposta di Lady Arcobaleno è stata un bel momento**
Tivoli, forse… Tivoli…(?)… perché?
No, così… controllo. No, è Treviso. Pensavo ancora ad Anime (a) salve, la canticchio da giorni. C’è un riferimento al divino, anche. Che spiegazioni vi deve Dio?
L.A.: Io gli farei due domande: Perché ti piace essere pregato? Perché esiste il male?
R: Per la mia visione della vita Dio è qualsiasi cosa. I riferimenti a Dio sono dovuti a quello. Se è in ciascuna cosa, anche il male e il bene, mi permette di guardarmi allo specchio, dire a me tesso che io sono Dio e accettare ciò che non mi piace di questa cosa. Nella mia mente lo incontro ogni giorno.
Ecco, tutto questo per arrivare al fatto che rispetto al live ho trovato profondamente diverso, quasi come se foste due gruppi diversi, il vostro approccio cantautoriale. Anche per Fake News è stata la stessa cosa. Insomma, da cosa nasce questa dicotomia?
R: Ho una mia idea personale su questo. La musica dal vivo e quella prodotta sono due cose totalmente diverse. Dal vivo non abbiamo il tempo e l’opportunità di spiegare alle persone un concetto più complicato che invece potrebbe essere spiegato in una canzone pronta. Invece dal vivo te la butto là, e cerco di giocare molto sulle sensazioni che provi sul momento. Se voglio parlare d’amore (e non ho il tempo di spiegare cosa sia) prendo una canzone di Celentano, perché in cuor tuo lo sai, perché il cervello la collega all’amore. Ma se voglio dissacrarla la suono in un mood, appunto, dissacrante. Se qualcuno ha la lucidità, durante il live (anche se è difficile in quella circostanza), di capire tutto questo percorso ben venga, altrimenti sfrutto il flusso sentimentale… ma non si argomenta troppo come si fa con le canzoni prodotte.
P: Sono totalmente d’accordo sul resto, non sull’ultima parte. Dal mio punto di vista è tutto legato ai diversi mezzi di comunicazione. In un live hai possibilità di comunicare con il corpo, e noi abbiamo iniziato con quello. Non ci siamo mai veramente dedicati troppo a comporre musica.
R: Però non ho la pretesa di aspettarmi razionalità dalla controparte, perché so che non è il contesto adatto. Siamo in live, il contesto è il casino e cerchiamo di destreggiarci in esso. Non cerco di cambiarne il mood!
P: Tu stai comunicando con l’esperienza fisica però, non con la razionalità!
Però mi pare di capire che vi piacerebbe se questa sintesi fosse raggiunta un po’ da tutti: su internet si trova molto del vostro materiale, sia quello serio che quello più naïf, quindi di certo non lo nascondete. Lasciate che sia una ricerca personale di chi vi ascolta mettere insieme questi pezzi, dai testi profondi delle vostre canzoni agli esperimenti su SoundCloud?
P: Assolutamente sì. In realtà comunque abbiamo passato un sacco di tempo in live e pochissimo in studio. Non siamo a mio avviso molto esperti in quello che potremmo fare, perché è difficilissimo unire tre teste e concentrare tutto in un prodotto di 4 minuti che è quello e deve essere sempre quello per tante persone, riascoltato diverse volte…
DA QUESTO PUNTO DELL'INTERVISTA LADY ARCOBALENO RI-ASSUME IL NOME DI PIER PAOLO
Quando scrivete invece, cercate di somigliare a qualcuno, di essere più originali possibile o non vi ponete questo problema?
PP: Io non intendo somigliare a nessuno. Sarebbe un insulto per me essere paragonato a qualcun altro, o imitare qualcun altro. Il mio obiettivo è che qualcuno voglia emulare me… ma allo stesso tempo mi fa rabbia questa cosa, direi “Fa’ pace con la tua vita, non scopiazzare. Non mi prendere come punto di riferimento, IMPARA E BASTA”
P: Però, se posso, dopo aver visto Lundini, penso che abbiamo intercettato, prima che divenisse noto al grande pubblico, quel tipo di comunicazione. La sento molto, molto simile.
Sono assolutamente d’accordo. Io sono un appassionato di questo filo conduttore che c’è dietro e che probabilmente è il surreale. In tutto questo panorama comico esteso, insieme agli Squallor, Nino Frassica e altri personalmente ho messo anche voi. Forse è il motivo per cui vi sto facendo tutte queste domande. Ma ditemi, se vi fosse data possibilità di sostituire un membro della band, adesso, così, a bruciapelo…chi sostituireste?
Tutti: Pier Paolo.
Idee chiare. Ovviamente nei PVM c’è un pezzo di ognuno di voi, qualcosa di più e qualcosa in meno rispetto alla somma dei tre… cosa dà ciascuno dei tre?
R: Man mano che il gruppo si è formato ci siamo formati anche noi come persone. Per formati intendo non trasformati, ma quasi realizzati: ciascuno personalmente ha avuto maggiore consapevolezza di sé. Abbiamo imparato a stare in pace con noi stessi e a riconoscere nostri pregi e difetti, accettandoli totalmente. E’ grazie a loro due se riesco a scherzare dei miei difetti e a vantarmi senza arroganza dei miei pregi. Io so di riuscire bene in alcune cose e di avere grandi défaillance in tante altre: è una cosa che devo a loro sapere in cosa eccello e…
PP: Questo lo dici tu, cosa perderemmo senza di te? In cosa eccelli tu?
R: Mi stai chiedendo cosa perdereste senza di me?
PP: Sì, questa è la domanda!
R: Unire poche parole, molto semplici, col mio stile di scrittura, presentarmi in live… fare da front-man, insomma… Ma, conoscendo il mio passato, se mettessi troppo di me finirebbe un po’ male.
P: Per risponderti prendo la figura di un eroe e di un bambino. Senza Ruben non avremmo un eroe empatico e carismatico che riesce a raccogliere le masse e ad avvicinarle a sé… e un bambino miracoloso nel regalare delle esperienze divertenti alle persone. Senza Pier Paolo non avremmo un eroe che dice una marea di minchiate, ma non hai idea di quanto questa cosa sia importante. E non avremmo un bambino che ascolta i pensieri di tutti quanti, delle mode…
PP : Quello che fa cortile, in pratica, e che ascolta tutte le voci del cortile.
P: Senza di me credo che mancherebbe l’idea della ricerca di un obiettivo di significato… e il bambino viziato che vuole sentirsi bene e vuole che le cose che produce debbano essere belle.
PP: Per quanto riguarda me non lo so, più le cose negative che le positive, però forse sono il coniglio nel cilindro
Da tirare fuori quando vuoi stupire qualcuno…
[Battuta censurata su cosa sia possibile tirare fuori]
PP: Mi piace nutrirmi delle persone che sono intorno. Il feedback della gente… E questo soprattutto mi permette di avere pregiudizio su tutto quello che ci circonda, che è una cosa fantastica. E qual è la cosa bella del pregiudizio?
R: Appunto, qual è? Ce la stiamo chiedendo tutti…
PP: Che è un 50 e 50, o hai ragione o hai torto
R: Logica impeccabile
PP: Però se hai torto ci sono loro che rimediano. Se è giusto hai fatto colpo e hai fatto 10 scalini in più. Per farti un esempio: facciamo una canzone con un sound e io dico “Oh ragà, 'secondo il mio pregiudizio' questa cosa non piacerà alla platea dei vaccinati, tipo, over 50” può piacere o non piacere… però se ho ragione…
La verità è che me ne esco con minchiate che però vengono ridefinite colpi di genio, che fanno da mediatore, risollevano le situazioni, sdrammatizzano, e poi sono un bravo diplomatico
Nel seguente incrocio, il veicolo B passa per primo: vero o falso
P: Sì! B,T,S! Sono un insegnante di teoria in autoscuola.
Avete un bel modo di comunicare, c’è molta ricerca in quello che fate. I teaser che avete preparato per Anime (a) Salve sono dei gioiellini e mi sembra di vedere che ci sia ognuno di voi dietro quello che scrivete. Cioè più che il lavoro di un singolo o di un gruppo mi è sembrata una raccolta di tre interpretazioni… danza, video, musica, rap, c’era pure Nietzsche! Insomma, quale sarà il vostro prossimo passo? Quello che sembrate voler raggiungere è una sorta di imperturbabilità, di pace spirituale.. e forse la cifra distintiva delle vostre due canzoni è proprio la meditazione, nel senso più filosofico ed essenziale del termine.
P: Io non lo so. Le cose che vengono create effettivamente sono diverse da quelle pensate. Il processo creativo è difficile. Io ho provato, in passato, a programmare tutto passo dopo passo, ma non si può fare. Un nostro pregio e una nostra carenza.
Non so dirti cosa verrà dopo, sicuramente quello che abbiamo già fatto con cose in più derivanti da esperienze di vita diverse. I PVM sono uno scarto residuale di quello che è la mia vita, le cose che ricordo di questa continua ricerca di pace … le afferro e le rendo reali mettendole dentro i PVM.
R: Realizzazione di quello che studi e realizzi cercando in te stesso… L’obiettivo finale, che più mi realizzerebbe a prescindere dal diventare conosciuti o meno, sarebbe potermi vedere indietro attraverso i PVM, come se i prodotti dei PVM fossero un mio diario, oltre il fatto che questo mi aiuterebbe a superare e realizzare quello che mi accade. Come quando scrivi il diario e ti senti vuoto, finito lo sfogo… perché quello che era dentro di te ha finalmente forma fisica. Ci addentriamo in filosofia, ci appassioniamo ad un qualche argomento… poi esce con i live e rimane là, fisico. Tutto ciò mi dà appagamento.
PP: L’obiettivo sarebbe arrivare ad un punto di consenso popolare consapevole. [Rivolgendosi a tutti] Che cazzo ridete? … Una platea attenta ai testi, alla musica…che si interroghi sul perché una nota segua quell’altra…che è? Che ridi?
R: Sì, quelli che scrivono per Rolling Stone vengono ai nostri concerti…
PP: No, al contrario, QUESTA GENTE CON NOI NON CI DEVE AVERE A CHE FARE! Voglio un pubblico da musica lirica… e lavorare nei live con grandi scenografie. E’ un dettaglio più da bambino, lo so… ma è ciò che manca a quello che hanno detto loro. Consenso con consapevolezza: dei testi e delle motivazioni che ci stanno dietro, quindi della causa… e ovviamente che questo porti benessere interiore. Ricordati che come disse Maurizio Sarri tanto tempo fa “Siamo solo dei cazzoni che palleggiano”, nel senso che alla fine dobbiamo rimanere quello che siamo ed essere apprezzati per quello che siamo. Ma, quando c’è da lavorare, lavoriamo sodo: questa cosa deve essere chiara.
Come agiresti in caso di terremoto?
P: Mi pare che ci dobbiamo mettere sotto un tavolo
R: Io mi metterei a correre in campagna aperta
P: Sì pure io, non voglio stare sotto un tavolo, vorrei stare all’aperto, in equilibrio tra una scossa e l’altra
PP: Io cerco di scrivere un testamento più velocemente possibile e poi mangiarlo cosicché poi non lo ritrovino.
Ditemi, quanto siete legati alla nostra/vostra terra? Sognate di evadere, come un po’ tutte le band, per poi fare ritorno, cambiati? O non lascereste mai il posto dove siete?
R: Sinceramente so che se si dovesse produrre un prodotto più di qualità forse un viaggio fuori dovremmo farlo. Ma onestamente il sogno sarebbe continuare a stare qua.
PP: La mia casa è dove sto bene e quindi …
R: … da nessuna parte …
PP: Dove mi porta la musica, vado.
Stiamo finendo. Una curiosità: Quale canzone vi piacerebbe aver scritto, ma che a differenza delle altre non potete plagiare?
P: The Art of Dying dei Gojira
R: Troppe canzoni. Ma più che averle scritte mi piacerebbe essere nella condizione di scriverle, provare le stesse cose che hanno portato i loro autori a scriverle.
PP: Io ho una fissa per lo strumentale. E’ sempre stato così, è quello che mi cattura a primo impatto, quindi direi una colonna sonora. Però triste, demoralizzante… qualcosa di Hans Zimmer. “Tristi”, mi raccomando, scrivilo. Quelle che ti danno il magone, che ti ammalignano, come si dice da noi.
Ultima domanda: Perché vi scioglierete?
R: Quando…
PP: Quando finirà quest’intervista lui dirà “Ragà, è finita”
P: Lui lo sa perfettamente
R: Quando contemporaneamente almeno due di noi si perderanno per strada, con se stessi…
P: Quello che dice è vero. Quando avremo compiuto il nostro dovere di metabolizzare certe cose. O quando per allontanamenti, decisioni di vita non saremo più molto in contatto. Ci siamo arrivati vicini con la pandemia. Non ci siamo sentiti per molto, e abbiamo fatto uno sforzo quando abbiamo riallacciato i rapporti. Ce ne siamo resi subito conto.
PP: Quando ognuno di noi non assolverà più ai compiti che ha nel gruppo, quando io non farò più ridere, Ruben non riuscirà più ad essere il leader e Paolo a mediare. Per il resto PVM può essere un gruppo o un ideale, ricorda che noi siamo più che una band.
Ah, sai quando chiedevi del nostro contributo al gruppo? Metti che se non ci fossi io i videoclip sarebbero banali come quelli delle altre band.
Lo avrei comunque fatto. Traviserò tutte le vostre parole [n.d.r. l’intervista che leggete è totalmente diversa da quella effettivamente fatta: scusatemi tutti, ma io ho manie di protagonismo]
PP: E’ stato bello, che mangi questa sera? Fatti i Cordon bleu.
Termina così un’oretta piacevole. Spero vi siate divertiti e decisi a non ascoltare mai i PVM, quindi MAI cliccare su questi link:
e, se lo fate, io non voglio alcuna responsabilità.
Dopo questa intervista, comunque, i PVM si sono sciolti. Quello che avete appena letto è il loro testamento.
Ruben, dopo aver raggiunto la perfezione spirituale, ha deciso di fare la professoressa dell’Eredità, ogni sera sul primo canale.
Paolo, dopo aver approfondito la sua conoscenza di band giapponesi, vive felicemente a Kumamoto, dove svolge la professione di TikToker.
Pier Paolo è ancora dove l’ho lasciato durante l’intervista, salutatemelo.
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