Nel 400', sotto la corona d'Aragona, la Sicilia divenne il centro nevralgico dei commerci nel
Mediterraneo occidentale e il crogiolo di una cultura sofisticata e cosmopolita, inserita in
un circuito che coinvolgeva centri come la Catalogna, la Valenza, la Provenza, le Fiandre,
la Borgogna.
Intorno al 1429, re Alfonso D'Aragona, detto il Magnanimo, trasformò un’antica dimora
nobiliare palermitana, palazzo Sclafani, in un ospedale. L’interno del palazzo, costituito da
un arioso e ampio cortile quadrangolare racchiuso da un porticato, venne decorato a
partire dal 1441 con un ciclo d'affreschi di cui rimane soltanto il Trionfo della morte.
Palazzo Sclafani, durante la seconda guerra mondiale, venne bombardato e l’affresco,
gravemente danneggiato - l’intonaco si era distaccato e sollevato in più punti - venne
staccato e sottoposto a un primo restauro. Di dimensioni colossali, 600x642 cm, oggi è
esposto alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, ed è annoverato tra i capolavori
pittorici del Gotico internazionale. Ignoto è il nome del suo autore, o piuttosto dei suoi
autori: del resto il dipinto, ponendosi al centro di fitti scambi culturali e artistici fra aree
diverse del Mediterraneo occidentale, fa riferimento a modelli e a stilemi disparati di
origine catalana, valenzana, fiamminga, provenzale e borgognona. L'anonimo maestro di
Palazzo Sclafani, che spesso le fonti definiscono un “cingano”, cioè uno straniero ramingo,
doveva essere un artista scaltrito e non uno sprovveduto “naïf”, come invece è stato
sostenuto di recente. Consapevole della sua fama, egli si autoritrae nel dipinto, insieme al
suo aiuto, come un giovanotto dall’aria arguta e spavalda, con in mano il pennello e il
puntatore, in mezzo al popolo minuto. Si sono rivelate poco convincenti le attribuzioni ai
pittori Tommaso De Vigilia e Gaspare Da Pesaro, più credibile quella al valenzano Perez
Gonzalo, anche se ancora non suffragata dai documenti. Non è chiaro neppure se il
committente sia stato Alfonso il Magnanimo oppure un suo fedelissimo, l’arcivescovo
palermitano Nicolò Tedeschi, legato all’ordine benedettino.
La destinazione originaria dell’opera era un ospedale, un luogo che nel 400’ era destinato
più al trapasso che alla degenza. In effetti essa ci invita ad accettare la morte come un
destino comune che livella tutti e irride il nostro attaccamento ai beni terreni.
La figura della Morte, in sella alla carcassa ansimante di un cavallo, con il suo profilo
aguzzo, taglia orizzontalmente l'affresco in due parti: la parte inferiore rappresenta un
mondo dominato dalla sua potente presenza; la parte superiore, invece, raffigura la Nuova
Gerusalemme, ovvero il regno di Dio, un regno di bellezza e d'armonia, un mondo
affrancato dal peccato, e quindi anche dalla morte. Gli studiosi ne hanno individuato la
fonte letteraria in alcuni passaggi dell'Apocalisse, come ad esempio l'ottavo verso del
sesto capitolo in cui si legge di un cavaliere chiamato Morte:
"et ecce equus pallidus : et qui sedebat super eum, nomen illi Mors, et infernus sequebatur eum, et data est illi potestas super quatuor partes terrae, interficere gladio, fame, et morte, et bestiis terrae".
L’iconografia ricalca esempi trecenteschi come i Trionfi della Morte del Monastero del
Sacro Speco di Subiaco e del Camposanto di Pisa. La composizione è costruita per linee
diagonali e verticali e i colori sono brillanti e corposi: si tratta di espedienti di cui l'anonimo
autore si avvale per accentuare il dinamismo e la drammaticità della scena. Al centro, la
figura inquietante della Morte a cavallo si avventa su nobili donzelle e giovani gaudenti, e
infine si accanisce con le massime autorità di questo mondo: il papa (Eugenio IV?),
l'imperatore, il sultano, vescovi, prelati, uomini facoltosi, come ad esempio l'insigne giurista
Bartolo di Sassoferrato, giacciono, in primo piano, ormai riversi al suolo, privi di vita.
Soltanto la folla dei diseredati e derelitti, che invece la invoca a gran voce, condannata a
una vita di stenti, viene risparmiata dai suoi dardi.
Le figure sono immerse in uno spazio che è realistico da un lato e metafisico dall'altro.
Apparentemente la scena dell'affresco, l'interno di un giardino recintato da un'alta siepe -
la "terrestre aiuola", della tradizione medievale – è plausibile, ma al tempo stesso non lo è,
rivelandosi inverosimile: infatti la morte è una dimensione che va oltre il tempo e lo spazio,
e quindi oltre qualsiasi idea di verosimiglianza. Del resto chi ha mai visto la Morte con il
suo scheletrico cavallo attraversare una città? Questo giardino è anche un hortus
conclusus, espressione latina che si traduce in greco con il termine πᾰρᾰ́δεισος,
letteralmente “paradiso”, un luogo recintato in cui, almeno in un primo momento, si vive
protetti; successivamente il genere umano si allontana sempre più dalla natura, cedendo
alla vanità e all’artificiosità degli stereotipi mondani: ed ecco allora che fa irruzione la
Morte falciando tutti.
Tuttavia quest’ultima, in sella al suo destriero rampante, ci appare in una posa congelata e
bloccata: è come se la sua folle corsa sia sul punto di arrestarsi in coincidenza del centro
della composizione. Destinata a distruggere se stessa, anche la Morte deve morire per
lasciare posto alla vita: il Trionfo della Morte di Palermo è allora un trionfo sulla Morte, cioè
della vita. L'eterna lotta tra bene e male, tra vita e morte - una costante dell’allegoresi
medievale - è sicuramente un'importante chiave di lettura per intenderne il significato.
Nella parte superiore, a destra, una luce intensa rischiara la vegetazione e i profili delle
figure antistanti a una fonte, identificata dagli esegeti ora con la fontana della vita, di cui
parlano le Sacre Scritture, ora con la "fontaine de jouveance" dei romanzi cavallereschi
medioevali. In disparte, l'apostolo Giovanni, l'autore dell'Apocalisse, riconoscibile
dall'aquila che si posa sulle sue spalle, sta già contemplando la nuova Gerusalemme.
Grande cura è rivolta, inoltre, alla resa dei dettagli, come le espressioni sofferenti dei
cadaveri, i visi delle donne, i tessuti “alla damaschina”, gli animali, tanto che un grande
storico dell'arte del 900', Ferdinando Bologna, ha paragonato l’opera a un'enorme pagina
miniata.
Quasi certamente Pablo Picasso si è ispirato all’equus pallidus dell’affresco di Palermo per
il cavallo di Guernica, un dipinto divenuta simbolo delle atrocità della guerra e del
nazifascismo, che può considerarsi un Trionfo della Morte del 900’. Anche Guernica,
infatti, è un’icona dell’eterna lotta tra il bene e il male, in cui è il bene a prevalere: il
dramma si trasforma così in catarsi. Sia l’anonimo maestro di Palazzo Sclafani che
Picasso hanno rappresentato la potenza distruttrice della morte per educarci all’amore per
la vita, così fuggevole e labile.
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