“Anche se disegno una mela, lì c’è la Sicilia” dice il pittore della Vucciria. Quanto è da ritenersi attuale una dichiarazione simile? Quanto la provenienza regionale ci influenza e che ruolo hanno i dialetti nella nostra formazione culturale?
Nel suo libro I bambini leggono, Roberto Denti pone il seguente quesito: «La lingua italiana ci unisce. Davvero?». Una provocazione questa che non sembra impressionare più di tanto. Anche André Martinet, uno dei più importanti linguisti del XX secolo, sosteneva che la diversità linguistica cominciasse dalla porta accanto o addirittura all'interno di uno e uno stesso individuo dove, come esattamente in un campo di battaglia, si battono tipi e abitudini linguistiche e dove allo stesso tempo si ramifica una fonte permanente di interferenza linguistica. Potrà sembrare anacronistico proporre una riesumazione della “Questione della lingua”, eppure l’attualità della stessa non colpisce solo i linguisti.
Del resto la lingua non è un monolite, e a chi non è mai capitato di rimanere sospeso tra espressioni italiane dissimili per la provenienza geografica? È inutile mentire!
Quel senso d’appartenenza regionale riemerge con prepotenza ad ogni occasione, dalla pronuncia alla grammatica, e con esso il dialetto nelle sue espressioni che ondulanti ricuciono il presente al passato. Ed ecco che a galla rimane forse una questione che non è poi da ritenersi così risolutivamente conclusa, considerando anche l’incalcolabile ricchezza artistica nonché demoetnoantropologica che questa trascina con sé. Persino La Crusca ha avanzato delle remore sulla subordinazione del dialetto. Michele Loporcaro, nel n. 55\2017 del periodico semestrale La Crusca per voi, dopo aver affermato che
«il dialetto sta, per ragioni storico-culturali, in rapporto di subordinazione sociolinguistica alla lingua rispetto alla quale esso è, si dice, eteronomo»
precisa che tale situazione inizia a vacillare già dalla seconda metà del Novecento quando si parla in sociolinguistica di diglossia, in conseguenza a quella che si potrebbe definire «urbanizzazione fonetica». Aggiunge che attualmente, analizzando la commutazione di codice che avviene all’interno della conversazione, si può più precisamente parlare di dilalia. Quindi, nella situazione comunicativa odierna, lingua italiana e dialetto risultano compresi nel parlato quotidiano. Buone notizie dunque per i cultori dei dialetti, ma anche per tutti coloro i quali finora hanno tenuto a freno gli sfoggi del proprio dialetto.
Anche i dati ISTAT e DOXA confermerebbero come la tendenza sul suo libero e spontaneo uso sia cambiata. Le percentuali di dialettofoni istruiti sono in crescita, e la spontaneità che sembra indurre allo switching italiano-dialetto altro non è che sintomo neanche troppo latente di come nessuna lingua più del dialetto possa confermarsi per la sua immediatezza di linguaggio. Non per nulla Pasolini, da ambizioso neofita, si identifica nel dialetto: per lui la forma più immediata e autentica.
Spazzati via i timori di una decadente regressione linguistica, non resta che assaporare i frutti nei quali il dialetto esercita le sue migliori proprietà e che inevitabilmente avvolge e contagia ogni prodotto che dalla sua fertile terra proviene. Diceva infatti il pittore della Vucciria, Renato Guttuso, «anche se disegno una mela, lì c’è la Sicilia». E si sentirebbe qualcuno forse di negare tale assunto? Dalla poesia alla pittura, dalla musica alla cucina, ogni forma d’arte risente della propria provenienza geografica; sia di quella del suo creatore sia di quella del luogo stesso nel quale questa ha preso forma. Non per capriccio subiamo dunque il “richiamo del dialetto”, ma perché di questo siamo fatti e, come Buck a quel canto torniamo.
In definitiva sembra proprio che il dialetto continuerà non solo a vivere ma ad assumere le sembianze di risorsa espressiva aggiuntiva. Ma attenzione con aggiuntiva non si intenda un assupecchiu (too much, troppo, in più…) e neanche una riduttiva enfatizzazione del senso. Si parlerà piuttosto di espressività ricercata e dunque di codice esibito nonché segno di intimità e padronanza con e della lingua.
A sostegno di quanto detto, la filologa Maria Corti ritiene addirittura che «Koinài regionali e dialetti abbiano costituito un valido contrappeso, nello svolgimento della storia della lingua letteraria, a ogni rischio di appiattimento espressivo». Un chiaro invito dunque a coltivare la ricerca dell’estro creativo evitando di inciampare in etichette e stigmi linguistici che ad oggi rappresenterebbero unicamente delle cadute (sciddricuna) di stile. In quest’ottica più comprensibile diventa il vagheggiamento pasoliniano sulla “morte dei dialetti” quale emblema di una «omologazione di massa che cancella le culture e gli idiomi locali». Un’antilingua stereotipata dunque quell’italiano che, depauperato da ogni tratto locale, è definito da Calvino la “lingua povera dei ricchi”. E parlando di ricchezza, il Creatore non ne avrà a male se peccheremo di lussuria abbandonandoci ai tesori custoditi nel dialetto, spinti forse da sentimenti diversi ma comunque ispirati. Nonostante l’ostracismo che lo ha per secoli adombrato, il dialetto riemerge come un livre de chevet, in reazione ad una realtà sempre più caratterizzata da monotonia, ripetizione dell’identico e assenza di significato.
In opposizione alla perdita del luogo implicita negli standard linguistici nazionali e internazionali, il dialetto rappresenta la conciliazione di ragioni linguistiche e culturali, confacente ad un’intima modalità di stare al mondo. Un mondo nel quale forse l’italiano non basta ad esprimere e contenere la storia di ciascun abitante della penisola.
In ultimo diremo dunque che forse, come dice Sciascia in Una storia semplice, «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare». Beh allora confesso: Io ragiono in dialetto, e tu? A cura di Giorgia Maria Falzone.
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