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FABRIZIO DE ANDRE': la classifica degli album.

Ho imparato cosa fosse una puttana molto prima di capire in cosa consistesse esattamente il sesso. In salotto avevamo un giradischi, con il quale mia madre ascoltava la musica dopo cena. Avrò avuto sei o sette anni, ed essere ammesso a partecipare a quei momenti dell’impenetrabile mondo degli adulti era un privilegio straordinario per me.

Quei dischi mi sembravano antichissimi, ma probabilmente erano più recenti allora di quanto non sia oggi questo ricordo. Ricordo Guccini, Fra la via Emilia e il West, Battiato, Bennato, Branduardi, De Gregori. Ma a colpirmi di più era stata la voce densa, profonda e chiara di De André; scoprii molto presto di essere stonato, e forse per questo a interessarmi furono da subito più i testi più delle musiche.

Le prime canzoni le imparai a memoria a sette o otto anni; Il Pescatore, Il Testamento, Bocca di Rosa, La guerra di Piero, La cattiva strada. A dieci anni, sentii Claudio Bisio cantare Il Bombarolo. Rimasi sconvolto all’idea che qualcuno potesse aver concepito un testo così perfetto; più tardi, al computer, scoprii che era una canzone di De André. Trovai un sito con tutti i testi e i file audio della sua produzione musicale, e per un anno non ascoltai altro. Il primo CD che ho comprato è stato Storia di un impiegato, e non avrò avuto più di dodici anni quando ascoltando Anime Salve in macchina scoprii con stupore che si potessero dire cose come “fica” e “succhiare le tette” in una canzone.


Nella mia playlist di Spotify, creata con l’ambizione folle di racchiudere tutta la musica degna di essere ascoltata e che al momento ricomprende 452 titoli in 7 lingue e 6 diversi dialetti italiani, ci sono una cinquantina di canzoni di De Andrè.


Non è un segreto come la musica, i film, l’arte, i luoghi, e le persone conosciute negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza tendano ad avere un influenza sproporzionata nel determinare i gusti di un individuo.


Ligabue parlava degli “occhi del bambino”, e, per quanto io non sia lontanamente qualificato per valutare i meriti oggettivi della produzione di De Andrè, credo di avere passato gli ultimi vent’anni a ad ascoltarlo, continuando a stonare quasi ogni nota ma senza sbagliare una virgola dei testi.


In questo articolo parlerò dei suoi quattordici album, abbozzando una classifica che, come tutte le classifiche, sarà più un gioco - con delle regole e cifre arbitrarie- che un tentativo di catalogare la bellezza. Ad ogni titolo dell’album aggiungerò un voto in decimi, inteso in relazione alle altre canzoni e non ad ipotetici canoni astratti di valore artistico, ed una citazione commentata. Scegliere le citazioni è stata la parte più difficile di un articolo che ho scritto nella mia mente da una decina d’anni. Mi sono basato sui miei gusti personali, e su un criterio che viene dalla mia idea che il valore di un narratore nasca dalla capacità di operare su tre piani. Il primo è quello delle pulsioni fondamentali degli esseri umani, passioni e desideri che rimangono immutati nel tempo; il secondo, la capacità di raccontare una vicenda storicamente e socialmente significativa per il pubblico di riferimento; per ultimo, il riuscire raccontare bene una storia.


14. Volume III (1968)

Album pubblicato di fretta, per esigenze discografiche, e contenente soltanto quattro inediti. Due traduzioni di Brassens (Il Gorilla, Nell’acqua della chiara fontana), un canto provenzale che è poco più di un divertissement (Il re fa rullare i tamburi), e un sonetto di Cecco Angiolieri perfettamente messo in musica ed interpretato, come un decennio dopo saprà fare Branduardi. Come nei lavori precedenti, De André dimostra una capacità incredibile di adattare, tradurre, e musicare i lavori altrui creando qualcosa di nuovo ed originale.


5/10

“-Che mi si prenda per una scimmia-/ Pensava il giudice col fiato corto/ -Non è possibile, questo è sicuro-/Il seguito prova che aveva torto.

L’impassibilità della versione francese viene trasmessa dall’espressione “questo è sicuro”.


13. Canzoni (1974)

Secondo, e ultimo, album della produzione di De André realizzato per esigenze puramente commerciali. Consiste in traduzioni di canzoni o poesie di altri autori e riarrangiamenti di pezzi già incisi, e contiene due traduzioni inedite di Brassens (Le Passanti, Morire per delle idee) ed una di Dylan (Via della Povertà). Spicca una traduzione di Suzanne, giò incisa come 45 giri, canzone di Leonard Cohen al quale De André è stato paragonato per il timbro vocale e l’attenzione ai testi.

La voce di De André, più calda e piena di quella di Cohen da giovane, si presta perfettamente al raccontare un amore malinconico e surreale. Esprimere un giudizio su questo disco significa sopratutto giudicare la capacità di De André di interpretare e tradurre lavori altrui, e nel caso di Via della Povertà l’esperimento non riesce particolarmente bene. La voce del genovese manca del timbro graffiante e ironico di Dylan, ed il pezzo è uno dei pochi della sua produzione che mi riesce difficile ascoltare. Delitto di paese, che riprende con minor successo le atmosfere di Bocca di Rosa, e Valzer per un amore, chiudono quello che è un album di livello più basso rispetto alla media della produzione deandreiana.


5.75/10

“Ma se la vita smette di aiutarti/ È più difficile dimenticarti / Di quelle felicità intraviste / Dei baci che non si è osato dare / Delle occasioni lasciate ad aspettare / Degli occhi mai più rivisti.”

Gli eufemismi dei primi due versi sono una geniale soluzione metrica all’intraducibile originale “Mais si l'on a manqué sa vie/ On songe avec un peu d'envie


12. Volume 8 (1975)

L’album nasce da una collaborazione con De Gregori, autore molto lontano da De André sia nello stile e che nei temi trattati, e questo contrasto è evidente dal risultato, nettamente inferiore rispetto alla media della loro produzione artistica.

De André, dieci anni più vecchio, sembra attraversare una fase di crisi personale e letteraria, mentre il ventiquattrenne De Gregori ha già inciso alcune delle sue canzoni migliori e più famose.

Accanto ad alcuni pezzi dimenticabili, come Canzone per l’estate, Oceano e Nancy (traduzione di una canzone che appartiene alla produzione minore di Cohen), si trovano due dei lavori più personali di De Andrè, che al contrario dei suoi contemporanei (Guccini, Vecchioni, De Gregori) molto raramente ha scritto di se stesso. Giugno ’73 e Amico Fragile aprono una finestra sull’intimità del cantautore, insofferente rispetto all’ambiente borghese da cui proviene e nel quale comunque sceglie di vivere.


6/10

“Evaporato in una nuvola rossa/ In una delle molte feritoie della notte/ Con un bisogno d'attenzione e d'amore/ Troppo, se mi vuoi bene piangi/ Per essere corrisposti.”

La debolezza e la dipendenza di un drogato, che chiede troppo alle persone che lo circondano.


11. Tutti morimmo a stento (1968)

Il primo di diversi concept album scritti dal cantautore genovese. Il tema della morte, già presente nei due lavori precedenti, assume un ruolo centrale nel terzo album di De Andrè, a partire dal titolo.

Un lavoro pesante, di difficile ascolto, e pieno di pezzi dimenticabili (i vari intermezzi, Inverno). Leggenda di Natale tocca i temi della pedofilia usando il linguaggio delle fiabe, un approccio ripetuto con maggior successo alcuni anni dopo nella traduzione di Sally.

Cantico dei Drogati e La ballata degli impiccati, la prima scritta a quattro mani con Riccardo Mannerini e la seconda ispirata alla Ballade des pendus di Villon, sono i due pezzi migliori dell’album. La prima è un monologo sulla dipendenza, la seconda riprende il tema dell’epitaffio già toccato in Testamento e che culminerà nel concept album Non al denaro non all’amore ne al cielo. De André si trova a suo agio nel dare una voce a chi non ce l’ha, ed i morti non fanno eccezione.


6.75/10

L'urlo travolse il sole/ l'aria divenne stretta/ cristalli di parole/ l'ultima bestemmia detta.

Il tragico e il triviale in quattro versi, un “porco dio” soffocato e a denti stretti.


10. Vol. 1º (1967)

Il secondo album di De André riprone lo stile del primo, melodie semplici apertamente ispirate da Brel e Brassens. Tra i pezzi più memorabili, l’esercizio goliardico Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e Via del Campo, resoconto semiautobiografico dell’incontro tra il cantautore ed una prostituta transessuale.

Uno degli album che contiene più canzoni di maniera, ma che non lascio il segno, tra cui Caro Amore, La stagione del tuo amore, e Barbara. Spiritual, che per ammissione dell’autore fu dettata dalla necessità di raggiungere il minutaggio richiesto dalla casa discografica, rimane un pezzo piacevole e divertente, con De André che attinge alle note più basse del suo registro vocale per imitare i gospel afroamericani.


7/10

E ti sembra di andar lontano/ Lei ti guarda con un sorriso/ Non credevi che il paradiso/ Fosse solo lì al primo piano.

Una descrizione accurata dell’innamoramento.


9. Rimini (1978)

L’album rappresenta un punto di svolta nella produzione deandreiana per diversi motivi. Inaugura la collaborazione con Massimo Bubola, e l’abbondono dello stile di ispirazione francese che aveva caratterizzato i suoi primi lavori e che rimaneva ancora in alcuni degli album precedenti; emerge l’interesse per l’autore nei confronti della lingua e del popolo sardi; si fa riferimento per la prima volta al tema degli indiani d’America, visti come popolo vinto e dunque che interessa un autore che ha posto il tema dei vinti al centro della sua opera. Questo lavoro contiene pezzi politici (Coda di Lupo, la poco decifrabile Parlando del naufragio della London Valour), traduzioni di Cohen e Dylan (Sally e una riuscitissima Avventura a Durango in cui lo spagnolo dell’originale viene sostituito dal dialetto napoletano), pezzi più intimi (Rimini, Andrea), e canzoni che si richiamano alla tradizione popolare (Zirichiltaggia, primo esperimento di De André con il dialetto, e Volta la Carta). Un album di transizione nel quale si può vedere il De André degli anni precedenti, Andrea potrebbe essere la Ninetta di Piero, ma anche i segni dei suoi lavori futuri, caratterizzati da un lavoro di ricerca e rielaborazione della tradizione popolare.


7.5/10

“Candu tu sei paltutu suldatu piagnii come unu stèddu/ E da li babbi di li toi amanti t'ha salvatu tu fratèddu/ E si lu curàggiu che t'è filmatu è sempre chiddu/ Chill'èmu a vidi in piazza ca l'ha più tostu lu murro/ E pa lu stantu ponimi la faccia in culu.”
“E tu quando sei partito soldato piangevi come un bambino/ E dai padri delle tue amanti t'ha salvato tuo fratello/ E se il coraggio che ti è rimasto è sempre quello/ lo vedremo in piazza chi ha la testa più dura/ E nel frattempo mettimi la faccia in culo.”

L’amore fraterno che ancora rimane richiamato nei primi due versi, la rabbia nel terzo e nel quarto, la conclusione perfetta.


8. Le nuvole (1990)

Album breve, otto brani che vanno dall’italiano al tedesco passando per i dialetti sardo, napoletano e genovese, e pubblicato a distanza di sei anni dal lavoro precedente, un’eternità in termini discografici. L’opera include un recitativo, Le Nuvole, un brano farsesco, Ottocento, e perfino una ricetta cantata in dialetto genovese ('Â çimma). La domenica delle salme, che precede di tre anni un lavoro simile di Guccini (Nostra signora dell’ipocrisia) è una spietata analisi della situazione politica italiana e occidentale negli anni in cui crolla il regime sovietico; tuttavia, De André non sembra essere a suo agio con un testo criptico e pieno di riferimenti e metafore poco agili. Don Raffaè è forse il pezzo più famoso e di facile comprensione del disco, una descrizione accurata del rapporto tra il crimine organizzato e la condizione di miseria in cui si trova chi per necessità vive in simbiosi con esso. Piacque anche al camorrista Raffaele Cutolo, a cui è ispirata. L’album manca tuttavia di un filo conduttore, finendo per essere un’antologia di curiosità ed esperimenti.


7.75/10

“A proposito tengo 'nu frate/ Che da quindici anni sta disoccupato/ Chill'ha fatto cinquanta concorsi/ Novanta domande e duecento ricorsi/ Voi che date conforto e lavoro/ Eminenza vi bacio, v'imploro/ Chillo duorme co' mamma e co' me/ Che crema d'Arabia ch'è chisto cafè.”

La prima scena del padrino, ma in musica. Il vuoto lasciato dallo stato che lascia spazio alla mafia, descritto in prima persona e con dignità da un personaggio con il quale è difficile non simpattizare e con un’atteggiamento familiare a qualsiasi meridionale.


7. Storia di un impiegato (1973)

Settimo album pubblicato in sette anni, e quarto concept album di fila scritto a quattro mani con Giuseppe Bentivoglio e ancora una volta frutto di una felice collaborazione con Piovani. L’unico album completamente politico di De André, con alcuni pezzi meno riusciti, ad esempio La bomba in testa, che pure riesce insieme alla musica a trasmettere perfettamente il senso di impotenza e frustrazione provato dal protagonista, e la Canzone del padre, a tratti forzata e liricamente non all’altezza della produzione di De André. Tra i pezzi migliori e più riusciti musicalmente Il bombarolo, Verranno a chiederti del nostro amore -che racconta con lo stile tipico del genovese l’amore che finisce con distacco e dolcezza unendolo al tema politico- e Nella mia ora di libertà, un inno alla non violenza il cui messaggio va oltre la storia raccontata nell’album.


8/10

Vi scoverò i nemici/ Per voi così distanti/E dopo averli uccisi/Sarò fra i latitanti/Ma finché li cerco io/ I latitanti sono loro/ Ho scelto un'altra scuola/ Son bombarolo.

Il protagonista, nel pieno del suo delirio, offre un “Badass boast”, espressione infelicemente traducibile con “vanto cazzuto”, degno di Taxi Driver.


6. Fabrizio De Andrè (1981)

Al contrario di altri cantautori, De André ha ridotto notevolmente la quantità della sua produzione nella seconda fase della sua carriera. In contrasto con i dieci album pubblicati dal 1966 al 1978, dal 1979 in poi l’autore genovese ne pubblicherà soltanto quattro. Un segno del fatto che, raggiunti i suoi obbiettivi economici, De André abbia deciso di non cedere più alle pressioni discografiche in termini di volume di produzione. Il risultato è un album di grande qualità, centrato sulla similitudine tra il popolo sardo ed i nativi americani, ancora una volta realizzato insieme a Massimo Bubola. Tutte i brani sono esempi di primo livello della capacità artistica di De André, forse con l’eccezione di Verdi pascoli, e spiccano il Canto del servo pastore e Franziska. Il pezzo più importante, se non il migliore, è Hotel Supramonte, una canzone d’amore nata durante il sequestro subito da De André e Dori Ghezzi in Sardegna, con il merito di riuscire a raccontare in prima persona una simile esperienza senza fare però alcun riferimento diretto al rapimento.


8.25/10

“Grazie al cielo ho una bocca per bere, e non è facile/ Grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere/ E un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve/ Sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete.”

L’amore, la passione, e il dolore fisico raccontati nella stessa frase.

5. La buona novella (1969)

Il quinto album di de André rappresenta l’inizio di una seconda fase nella sua produzione, che si emancipa dal modello degli chansonniers francesi per trovare una propria dimensione. Un anno prima di Jesus Chirst Superstar, l’album racconta la vita di Gesù usando come fonte i vangeli apocrifi. Musicalmente vario, dalle atmosfere psicheliche di Maria nella bottega del falegname ai richiami country di Via della croce, l’album mette in luce il talento di De André nell’usare la parola per raccontare le vicende degli ultimi, usando il verso come se fosse prosa. Spiccano anche le sue capacità interpretative, non tanto nell’estensione o nella varietà vocale quanto nella capacità di dare colore alla voce e materializzare i personaggi di Maria, del falegname, o del ladrone Tito. L’album non ha punti deboli; il Testamento di Tito è forse il punto più alto di questo lavoro, un pezzo in cui De André smonta uno ad uno i dieci comandamenti, rimarcando come ci sia poco merito nella virtù e poca colpa nell’errore e “come sarebbero le leggi se a scriverle fosse chi il potere non ce l’ha”. Dal punto di vista dei testi, Il Ritorno di Giuseppe e L’Infanzia di Maria hanno pochi rivali nella produzione di De Andrè e nella musica leggera italiana.


8.5/10

Un asino dai passi uguali/ Compagno del tuo ritorno/ Scandisce la distanza/ Lungo il morire del giorno.

Apertura cinematografica che richiama ai Western girati in quegli anni da Sergio Leone, un vecchio e un asino annoiati e stanchi con il tramonto alle spalle.


4. Tutto Fabrizio de Andrè (1966)

Il primo 33 giri, una raccolta delle prime canzoni scritte all’inizio degli anni sessanta. Probabilmente anche il primo disco che ho ascoltato, da bambino che andava a letto troppo tardi. Se De André fosse diventato, come in seguito ammise di avere rischiato, un “pessimo penalista”, basterebbero queste canzoni a dargli un posto nella storia della canzone italiana. Tutti i temi fondamentali della sua produzione sono già presenti in questo lavoro: lo sguardo affettuoso e ironico nei confronti degli ultimi (il becchino e le troie di Testamento; Bocca di Rosa), il cinismo verso l’amore destinato a finire, spesso male (Amore che vieni, amore che vai; La canzone dell’amore perduto; La ballata dell’amore cieco). La guerra di Piero, che mi ha spiegato cosa fosse la guerra, è forse la migliore canzone dell’abum insieme a Bocca di Rosa. Fila la lana, il pezzo più trascurabile di un album eccezionale, è il primo di una serie di adattamenti di De André, prova del suo talento nel divorare e trasformare la poesia altrui.


8.75/10

Ninetta mia, a crepare di maggio/ Ci vuole tanto, troppo coraggio/ Ninetta bella, dritto all'inferno/ Avrei preferito andarci in inverno.

Inverno inteso come stagione cupa, e anche come negli anni della vecchiaia.


3. Non al denaro non all'amore né al cielo (1971)

Dopo essersi misurato con i vangeli apocrifi, De André ha preso spunto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, tradotta da Fernanda Pivano. Dopo aver ascoltato l’album comprai il libro, con testo originale a fronte come andrebbe sempre letta la poesia, e probabilmente fu uno dei miei primi contatti con la lingua inglese. Ancora una volta il cantuatore genovese dimostra la sua capacità incredibile di filtrare materiale altrui, spesso migliorandolo e sempre caratterizzandolo con la propria sensibilità artistica. Musicalmente, l’album è decisamente superiore ai precedenti grazie alla collaborazione con un giovanissimo Nicola Piovani. Come per La buona novella, è quasi impossibile trovare una canzone brutta, anche se forse Un ottico è la più debole del disco sia dal punto di vista musicale che del testo. Un giudice è il pezzo più famoso, nella parte iniziale del quale si può scorgere la vena goliardica già presente nel Gorilla e in Re Carlo. Il suonatore Jones è forse un testamento poetico di De Andrè, alto borghese alcolizzato che sceglie di rifiutare una vita convenzionale.

9/10

Dov'è Jones il suonatore/ che fu sorpreso dai suoi novant'anni/ e con la vita avrebbe ancora giocato./ Lui che offrì la faccia al vento / la gola al vino e mai un pensiero / non al denaro, non all'amore né al cielo.”

Vedi Monicelli, “Io restai a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui che la pigliava come una condanna ai lavori forzati”.


2. Crêuza de mä (1984)

Ulteriore prova del fatto che la seconda parte della produzione di De André non nasce da considerazioni di carattere economico o discografico quanto dall’ispirazione dell’autore è quest’album, scritto interamente in genovese e realizzato insieme a Mauro Pagani. I temi sono quelli tradizionali di De André, tra cui la morte di un figlio in guerra (Sidún, paragonabile con il pianto delle tre madri nella Buona Novella); l’ipocrisia di fronte alla prostituzione ('Â duménega) e le vicende degli ultimi e degli sconfitti ('Â pittima, Sinán Capudán Pasciá).

Sul piano musicale è stato quasi unanimamente considerato il punto più alto della produzione di De André; l’album è composto soltanto da sette canzoni, e sono tutte eccezionali. Da Jamin-a, celebrazione carnale di una donna che è metafora del mare e sogno del marinaio, a Sinán Capudán Pasciá, resoconto di un marinaio genovese convertito all’Islam per necessità e senza particolari rimpianti.


9.5/10

“Teste fascië 'nscià galéa/ ë sciabbre se zeugan a lûn-a/ a mæ a l'è restà duv'a a l'éa/ pe nu remenalu ä furtûn-a.”
“Teste fasciate sulla galea/ le sciabole si giocano la luna/ la mia è rimasta dov'era/ per non stuzzicare la fortuna.”

I primi due versi che raccontano una battaglia in termini quasi omerici, gli ultimi due che inquadrano perfettamente il protagonista della canzone.


1. Anime Salve (1996)

Il lavoro finale di De André, scritto insieme a Fossati. Ancora una volta, l’album è stato pubblicato a sei anni di distanza dall'ultimo LP. Come nel caso de Le nuvole, l'album tocca diversi temi, con il filo conduttore della solitudine. Una storia d’amore nella cornice dell’alluvione di Genova, Dolcenera, pezzo con una musica travolgente ( e canzone che faccio sentire per prima a chi non conosce De André); una preghiera laica tratta da una raccolta di poesie di Alvaro Mutis; storie di pescatori e faide (Le acciughe fanno il pallone, Disamistade); Prinçesa tratta dall’autobiografia di una trans brasiliana trasferitasi in Italia; la storia del popolo rom (Khorakhané). A cinquantasei anni, ed esattamente trenta dopo il primo disco, De André dimostra chiaramente di non avere esaurito la sua fantasia e la sua capacità di filtrare e raccontare storie uniche.


10/10

“E se questo vuol dire rubare/ questo tozzo di pane, tra miseria e fortuna/ lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca/ il punto di vista di Dio.”

La meraviglia per chi ruba il pane già vista quasi venticinque anni prima in Nella mia ora di libertà.



Quando muore una persona cara, capita spesso di provare rimorso per non aver passato più tempo con lei. Quando muore un artista, a dispiacere è la consapevolezza di quello che l’artista avrebbe potuto fare se avesse avuto più tempo a disposizione.

Spesso mi sono chiesto cosa avrebbe scritto Sciascia se fosse vissuto negli anni di Tangentopoli e del Berlusconismo, su che film avrebbe realizzato Kubrick nell’epoca della CGI; sulle poesie che avrebbe scritto un Borges ultranovantenne; e sugli album che avrebbe pubblicato De André. Come Leonard Cohen, e al contrario di Dylan e di tanti altri grandi (escluso forse Guccini, che dalla metà degli anni novanta ha ridotto di molto la sua produzione senza abbassarne il livello), De André è migliorato notevolmente con gli anni. Cohen, di sei anni più vecchio, ha pubblicato due album eccezionali da ottantenne (Popular Problems e You Want It Darker), e mi piace pensare che per il genovese sarebbe stato lo stesso. Mantenendo il ritmo di un album ogni sei anni, ne avrebbe pubblicato uno nel 2002, uno nel 2008, uno nel 2014, ed uno quest’anno.


Non so di cosa avrebbe parlato, è impossibile prevedere la curiosità di un artista che negli anni del ’68 fu ispirato dai vangeli apocrifi e negli anni del terrorismo dalle Brigate Rosse dai nativi americani. Borges amava scrivere recensioni di libri immaginari, e forse un giorno qualcuno più capace di me scriverà una recensione di questi album che nessuno ascolterà mai.


Foto in copertina: Fabrizio de André fotografato da Guido Harari, fotografo italiano che ha ritratto i più grandi artisti della storia della musica, tra i quali Rolling Stones, Frank Zappa, Lou Reed.

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