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Dibattito sul senso della vita: Mr.Peanutbutter e Ricky Gervais

Avete mai sentito parlare di BoJack Horseman?

Beh, se la risposta è no vi siete persi moltissimo: si tratta di una serie d'animazione che vede come protagonista un cavallo, circondato a sua volta da altri animali antropomorfi e dalle loro avventure nel mondo dello spettacolo. Nonostante si tratti di una serie animata, non sembra di trovarsi davanti a un prodotto leggero: chi l’ha già vista conosce bene le vette drammatiche e le tematiche profonde che questa serie può raggiungere, senza trattarle in maniera superficiale, fornendo non pochi spunti di riflessione. In particolare, vale la pena soffermarsi su ciò che dice il personaggio di Mr. Peanutbutter nella puntata 1x12, cercando di tirare sù di morale Diane:

L’universo è solo un vuoto crudele e indifferente. La chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con stronzate varie fino a quando è il momento di tirare le cuoia.
(BoJack Horseman, 1x12)

Secondo il punto di vista sintetizzato in questa perla, interrogarsi sul senso della vita non porterebbe a nulla: l’assenza di senso ci spingerebbe ad interrogarci senza sosta in cerca di una risposta che purtroppo non potremmo trovare perché, appunto, non esiste. Meglio non porsi il problema, occupando il tempo con occupazioni altrettanto insensate al fine di far trascorrere il tempo concessoci su questo mondo.


Una visione senza dubbio nichilista della vita, che vede la chiave della felicità non nell’accettazione dell’insensatezza quanto nel rifiuto della domanda: procrastinare fino alla morte, evitare la domanda essenziale tenendosi impegnati con gioie passeggere.



Sebbene rappresenti una possibilità piuttosto valida (dal momento che, non ponendosi il problema, la maggior parte delle persone adotta automaticamente il punto di vista di Mr. Peanutbutter), Ricky Gervais propone una visione differente, che per certi versi sviluppa il punto di vista precedente. In After Life, la serie tv targata Netflix che lo vede autore e protagonista, l'attore britannico esprime il suo punto di vista sul senso della vita tramite un esempio che risulta perfettamente calzante:

- Se la morte è la fine, che senso ha?
- Che senso ha cosa?
- La vita. Ti puoi anche suicidare.
- Se guardi un film e ti piace […] e qualcuno dice che finirà, tu dici: “Lasciamo perdere. Che senso ha?” e spegni?
- No, perché posso guardarlo di nuovo.
- La vita è preziosa perché non puoi guardarla di nuovo. Puoi credere nell’aldilà, se ti rende felice. Ma potrebbe non esistere. Quando capisci che non vivrai per sempre, è quello che rende la vita così magica. Un giorno, mangerai l’ultimo pasto, sentirai il profumo di un fiore e abbraccerai un amico per l’ultima volta. Potresti non sapere che è l’ultima volta, perciò devi fare ciò che ami con passione. Fai tesoro degli anni che ti restano perché non c’è altro.
(After Life, 1x06)

Qui Gervais vuole più che altro porre l’accento sull’importanza di godere ogni momento della vita come fosse l’ultimo, pensando che potrebbe essere l’ultimo e che quindi si debba vivere con passione il presente: non sempre si riesce a sapere quando la fine arriverà e non sempre si ha la possibilità di realizzare ciò che si pianifica per il futuro, quindi meglio cogliere l’attimo. Egli non soltanto sembra accettare l’insensatezza della vita ma, piuttosto che riempirla con stronzate che lo distraggano fino a tirare le cuoia, sembra volerla riempire con le attività che lo rendono felice, essendo grato di essere vivo per poterle compiere.


Di particolare interesse risulta poi l’accostamento della vita con un bel film. Quando iniziamo un film, infatti, siamo consapevoli della sua fine ma lo guardiamo comunque, sperando soddisfi le nostre aspettative. Sarebbe sciocco non iniziare un film (ma un libro, un videogioco… storie in generale) soltanto per evitare il senso di vuoto che lascerà non appena finito. E tutti immagino abbiano provato almeno una volta nella vita la sensazione che si prova quando si finisce una bella serie tv o un bel libro: un piccolo trauma, un lutto che ci cercherà di colmare cercando altro.


Ma sarà davvero finito il percorso di quella storia?

Si può davvero affermare che “guardare quel film è stato insensato, una totale perdita di tempo”? Personalmente, lo trovo improbabile. Infatti, a meno che non si tratti di un film, o un libro, dove il progetto iniziale è reso così male da risultare nell’incomunicabilità, qualsiasi storia è portatrice di una miriade di significati e i suoi personaggi, ambasciatori di idee ed emozioni, rimarranno a lungo impressi nella memoria di chi ha avuto l’occasione di conoscerli. Il percorso di quella determinata storia non si esaurirà quindi con la fine della sua “vita”, ma piuttosto continuerà a vivere nel messaggio che ha cercato di trasmettere lungo il tempo concessole.


Per questo motivo interrogarsi sul senso della vita non ha senso.

Continuando il parallelo con la narrativa, risulterebbe bizzarra in effetti la domanda “perché questo personaggio esiste?”, alla quale si potrebbe tuttavia tentare di rispondere affermando “perché il suo autore vuole comunicare qualcosa, dare sfogo alla sua immaginazione, o magari semplicemente divertirsi”. D’altronde, riportando il discorso alla nostra realtà e rapportandolo con la religione cristiana, noi non saremmo stati creati da un essere superiore, creatore della realtà nella quale viviamo, ed esistente in un piano ontologico differente dal nostro? Potremmo benissimo considerarci anche noi personaggi romanzeschi di un mondo finzionale, dove il Creatore potrebbe anche essere chiamato lo Scrittore o magari il Regista.


In quanto all’essere tutti dei personaggi aveva già detto la sua Pirandello con le sue maschere: sono maschere quelle che vediamo, basate sulle idee che noi ci facciamo di una determinata persona e che ne vanno a costituire l’immagine nella nostra percezione. La stessa persona assumerà tante maschere quanti saranno i ruoli che lui interpreterà nel corso della sua esistenza, e Pirandello pone l’accento su come tutti noi non siamo che maschere già nel corso della vita. Ed infine, di noi, non rimarrà che questo: l’immagine, caricaturale, che gli altri hanno costruito della nostra persona, lasciandoci alle spalle i difetti del nostro essere reale per diventare un ideale, portatore di innumerevoli messaggi.


Che la nostra anima corrisponda all’idea di noi, o piuttosto alla moltitudine di idee, che lasciamo su questo mondo nella mente di chi ha avuto occasione di conoscerci? Considerata la cultura religiosa presente in Italia e l’importanza che vi riveste l’idea di anima, illuminante risulterebbe la celebre frase di Totò:

Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però, per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire.

Non siamo altro che personaggi di un’opera in cui siamo stati catapultati senza che ci venisse chiesto il permesso. Siamo attori allo sbaraglio e senza nessun copione che, attraverso largo uso dell’improvvisazione, diventano consapevoli del loro personaggio soltanto in corso d’opera e altro non gli resta se non interpretarlo fino in fondo.


A cura di Luca La Porta

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