«Io è solo un termine comodo per designare qualcuno che non esiste realmente»
(Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929)
La sera del 10 maggio 1921 gli spettatori del Teatro Valle di Roma hanno assistito attoniti a una sconvolgente commedia in cui Attori e Personaggi si sono separati spiritualmente e concretamente per scontrarsi tra di loro e contro la mente che li ha concepiti, Luigi Pirandello. È la prima di Sei personaggi in cerca di autore, una commedia che studia e nega il teatro stesso.
Scrivendo la sceneggiatura dell’opera che avrebbe cambiato le sorti del teatro contemporaneo, Pirandello dovette far capo alla necessità di distinguere l’aspetto degli Attori da quello dei Personaggi, per cui indica che quest’ultimi dovranno essere muniti di una maschera. La maschera non è scelta solo perché risulta il mezzo più efficace e idoneo per rispondere a quisquilie tecniche, ma, più di tutto, essa è la chiave di interpretazione del senso profondo della commedia:
«I Personaggi non dovranno apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni di fantasia immutabili, e dunque più reali e consistenti della volubile naturaliltà degli Attori.»
In realtà la maschera è l’emblema dell’intera opera di Pirandello. Non per caso s’intitola Maschere Nude la silloge che raccoglie tutto il teatro dell’intellettuale agrigentino, la cui poetica è centrata sul tema dell’identità intesa come mutevole, cangiante, per questo inafferrabile e tanto meno comunicabile.
«Si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi!»
Il concetto di maschera è strettamente collegato al teatro e all’identità, un legame che affonda le proprie radici nell’etimologia del termine “persona” derivata dal latino per “attraverso” e sonare “risuonare”, che stava a indicare la maschera indossata dagli attori che oltre a coprire il volto funzionava da amplificatore per la voce.
Identità e teatro coincidono nella performance, l'atto di costruzione di sé stessi. La recitazione della parte che la vita ci ha assegnato, per dirla alla Pirandello, in un'ottica in cui la finzione teatrale è più autentica della propria esistenza. La performance teatrale nel mondo antico era impensabile senza l'oggetto maschera, feticcio identitario.
E per quanto riguarda la vita?
Nel 1929 la psicoanalista Joan Rivière pubblica il saggio Womanliness as a Masquerade in cui la femminilità viene interpretata come una maschera. Secondo questa teoria, l’identità femminile è costituita dall’insieme di una serie di comportamenti e apparenze naturalizzate che definiscono la categoria della donna in quanto soggetto passivo, ben distinto dal soggetto attivo (l’uomo). Rivière, però, nega una femminilità che si distingue dalla mascherata:
«Io non suggerisco affatto l’esistenza di una differenza di questo genere; radicati o superficiali, i due atteggiamenti sono la stessa cosa.»
Per Rivière, essere donna significa indossare la maschera e coincidere irrimediabilmente con essa. Non esiste una femminilità senza la maschera: essa viene concepita come un organo artificiale (è fondamentale sottolineare la sua innaturalità) che definisce e fonda la femminilità.
La tesi di Rivière sull’inesistenza di una femminilità dietro la maschera trova un'interessante analogia in una frase che compare in un photomontage nell'opera autobiografica Aveux non avenus di Claude Cahun «Sotto questa maschera un’altra maschera. Non finirò mai di rivelare tutte queste facce». L’opera di Cahun, però, và ben oltre le categorie del femminile e del maschile, nonché oltre quelle dell’arte stessa, in virtù di una creatività fluida.
Nel fotomontaggio l’artista sembra impersonare una femme 100 têtes: una serie di suoi visi mascherati si compenetrano uno nell’altro, sovrapponendosi tra di loro sopra il suo collo, al quale manca chiaramente la testa originaria. Una femme sans tête decapitata in fase di montaggio per far posto a tutte le facce che insieme ne dovrebbero andare a costituirne una ma che in realtà rimangono volutamente slegate e riconoscibili nella loro molteplicità.
Claude Cahun (1898 - 1954) è stata un’artista associata al Surrealismo (partecipò a una mostra di oggetti surrealisti nel 1936), ma di fatto rimasta sempre indipendente e, anche per questo, sconosciuta alla storiografia dell’arte fino alla fine degli anni ’90, quando François Leperlier recuperò la sua opera, da cui ne esce fuori il ritratto di un’outsider contemporanea insofferente alla fissità.
Il tratto distintivo della ricerca della Cahun è la costante indagine visiva della propria identità, oltre i confini di genere. La sua personalità sovversiva è animata dal desiderio di affermare la propria individualità attraverso una strategia di autorappresentazione per cui gli autoritratti fotografici, i travestimenti e le maschere diventano medium prediletti di un’espressione creativa che gioca sul filo dell’ambiguità.
La sua intensa vicenda biografica con le relative implicazioni artistiche meriterebbe un articolo a parte. Di origine ebrea, omosessuale, fotografa, scrittrice, attrice, militante, vestita spesso da uomo: Claude Cahun condusse una vita anticonvenzionale e fece della sua identità una questione prima di tutto artistica, in un modo, però, in cui il confine tra vita e arte è appositamente indefinibile.
Cahun al contempo incarna e amplia la teoria di Rivière andando oltre la maschera femminile. Non c’è un solo individuo sotto le sue messe in scena, l’artista si dissolve entro un‘infinita serie di maschere, intese come manifestazione di un sé policentrico e sfuggente:
«Dietro gli autoritratti di Claude Cahun, non esiste un referente stabile o comunque, una verità di fatto che possa supportare un‘identità definitiva; si oscilla tra le categorie di gender e di sex imitando i codici della rappresentazione sociale senza mai sceglierne nessuno.» (Carpanini, 2007)
Oltre che elemento evocativo della finzione teatrale, la maschera è per l'artista è il luogo privilegiato in cui la sua volontà di autodeterminazione si sovrappone alla tendenza verso la metamorfosi.
L'esperienza di Claude Cahun è straordinaria poiché prescinde il suo tempo storico. Il rifiuto del concetto di un Sé biologicamente e socialmente determinato si pone all'interno di un discorso postmoderno che concepisce l'essere donna e l'essere uomo come una vera e propria performance, un costrutto sociale, superando così il binarismo di genere.
Tuttavia, l'opera di Cahun non può essere ridotta solo a questa lettura: la sua vicenda artistica e biografica della fotografa-scrittrice francese ci racconta una storia di emancipazione, di una lotta per la libertà di qualsiasi "forma", al fine di aprire il campo a infinite possibilità identitarie e artistiche.
A livello simbolico e psicoanalitico, la maschera si può interpretare come rappresentazione dell’indeterminatezza delle categorie identitarie. La maschera cela il volto del singolo e lo libera dai limiti e dalle disparità dettate dalla norma di genere, ma non fa scomparire il suo sesso e il suo desiderio sessuale: solamente l’identità si è eclissata a favore del mistero dell’indefinibile.
Maschera, personaggio e persona si rapportano tra di loro in un sistema circolare aggrovigliato nel «Chi sono?», la domanda più basilare sull’essere umani. La meditazione nevrotica sull’interrogativo identitario messa in scena da Pirandello e interiorizzata da Claude Cahun nella sua opera, è il problema centrale che affligge l’esistenza contemporanea in bilico tra verità e finzione, tra reale e virtuale, tra presunta naturalità e fantasiosa costruzione.
Chi sono? Difficile rispondere, ma forse, oserei dire, inutile. Leggere Virginia Woolf.
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