Hans Peter Feldmann, Seated women in paintings, 2019
L’archivio come organo di potere
Ogni shock storico conferma che affidarsi all’archivio come depositario duraturo e imparziale della memoria sia di per sé problematico. Infatti, l'archivio è innanzitutto un organo di potere e lo è fin dalle sue origini. Aleida Assmann, tra le più autorevoli studiose della memoria culturale, lo dice molto chiaramente:
"Prima dell'archivio come memoria storica, esiste l'archivio come memoria del potere: perché controllare gli archivi è controllare la memoria"
Uno degli aspetti fondamentali dell'archivio, infatti, è il legame con il potere, che lo ha reso strumento di dominio e controllo; anche il filosofo Jacques Derrida concorda con l'analisi di Assman, affermando che:
“Non c'è potere politico senza controllo della memoria e quindi dell'archivio".
Un fatto evidente è che l'ampliamento delle forme e delle possibilità di catalogazione incoraggiate dalle nuove tecnologie ha accentuato l'aspetto autoritario dell'archivio come organo di controllo che minaccia di sottoporre l'individuo e la società a vigilanza.
Negli ultimi decenni, infatti, la sensazione di sconcerto a cui mi riferisco è stata aggravata
dall'arrivo e dalla diffusione dei computer e di Internet. Sul web, il flusso continuo di informazioni annullano l'idea di profondità e sedimentazione, rendendo tutto più sfuggente e aumentando la conseguente paura di perdere le tracce. Tale frammentazione è un'altra fonte di quell'impulso quasi ossessivo di collezionare e archiviare. Oggi, infatti, siamo diventati accumulatori compulsivi e questo è stato intensificato dalla crescente incapacità di selezionare, soprattutto da quando la velocità con cui riceviamo le informazioni è aumentata. La diffusione di Internet ha prodotto una sorta di globalizzazione archivistica, per cui è legittimo porsi ulteriori domande, come ad esempio se la nostra conoscenza sia destinata a scomparire nel buco nero telematico del web. Possiamo fidarci dei documenti che l’archivio raccoglie? Se ognuno di questi è stato selezionato arbitrariamente, una selezione che risponde agli standard estetici e morali delle classi dominanti di ogni epoca e in un dato momento, diventandone un testimone involontario? Ne consegue che i documenti sono fonti storiche spesso distorte che, per essere utilizzati nel presente, devono essere oggetto di una messa in discussione permanente. La necessità di classificare accompagna in particolare poi, quei momenti della storia in cui si percepisce con maggiore intensità una crisi di conoscenza e, quindi, in cui è necessario mettere ordine tra i frammenti della storia, anche se l'odierno rinnovato interesse per la catalogazione e l'archivio emerge forse dall'esigenza di orientarci verso un eccesso di conoscenza che, paradossalmente, finisce per aggravare il disorientamento imperante.
Ma tutto ciò cosa c’entra con l’arte contemporanea?
Tutto questo descrive parte del contesto dell'arte contemporanea, in quanto fare arte nel XX e XXI secolo è diventato sempre più specifico, come si può vedere nelle pratiche di appropriazione, post- produzione, editing e remix, in cui il frammento assume particolare rilevanza come dato reale da cui iniziare, raccogliere e archiviare, che si è tradotto in gesti artistici fondamentali e nuovi.
Più che insistere su che cosa sia l’archivio nell’arte a mio avviso diventa più lecito domandarsi quali dislocazioni narrative si possono proporre a partire dalle pratiche artistiche, in queste circostanze, segnati dall'intreccio di sentimenti fratturati e in cui la decomposizione del sistema si nasconde dietro il manto scintillante della cultura.
E come possiamo ripensare e riorganizzare in tempi di emergenza le pratiche e i processi artistici in cui l'antitesi tra memoria e oblio sono alla base di ciò che Hal Foster ha definito come un "impulso di archivio", che risale dal 900 al nostro secolo e in cui si vedono artisti contemporanei coinvolti in un'ondata di archiviomania? Quando l’artista si approccia al paradigma dell’archivio non lo assume dunque nel senso più canonico, ma sceglie l’archivio, rielaborato come un "anarchivio" o modello anti-archivio come medium per ripensare, mostrare e raccontare attraverso il pensiero e il dialogo critico, in vista di dimostrare che qualsiasi forma di catalogazione è di per sé fallita. Ripensare l’archivio invertendo i suoi postulati contro l'esasperazione che comporta la catalogazione e i suoi sistemi esistenti può essere la risposta per ridefinire e riorganizzare le pratiche e i processi artistici contemporanei. Pertanto, l'anarchivio sovverte i postulati dell'archivio, inverte il loro significato e permette di mettere in discussione non solo le forme predefinite di categorizzazione e classificazione, che rimangono come scelte arbitrarie, ma anche la storia stessa.
Per rendersi conto della crescente ossessione nell'arte contemporanea di collezionare e archiviare, possiamo citare le famose Time Capsules di Andy Warhol, precursore della collezione di ritrovamenti selvatici e quotidiani in contenitori che diventano archivi, ripresi nuovamente dall'artista concettuale giapponese On Kowara nei suoi Date Paintings, come un registro del suo soggiorno nel mondo attraverso i giorni della sua esistenza, e attraverso un processo ossessivo di catalogazione del tempo. Possiamo anche menzionare il fotografo catalano Joan Fontcuberta con la sua serie Herbarium che evidenzia la fragilità della catalogazione stessa come un sistema tassonomico per raggiungere la conoscenza. Collezionare le cose quotidiane attraverso la selezione, la raccolta e l'organizzazione di immagini preesistenti e recuperate in diversi contesti, è visibile soprattutto nelle opere dell'artista tedesco Hans Peter Feldmann, che, proprio attraverso la catalogazione di immagini anonime, vuole dimostrare come le classificazioni siano forme costantemente rielaborate. Di conseguenza, possiamo considerare l’artista come un archivista che seleziona oggetti di varia natura per poi organizzarli in istallazioni dotate di una singolarità spazio- temporale unica: Documenta 11 nel 2002, la Biennale di Venezia nel 2003 e la mostra Atlas del 2010 al Museo Reina Sofia di Madrid ce lo hanno dimostrato.
On Kawara, Date Paintings, 1966-88
Si può allora considerare l'archivio come un nuovo genere dell'arte contemporanea?
Da quando anche i generi (intesi come forme concesse ad un ordine di rappresentazione) sono diventati di difficile definizione e le arti riflettono un linguaggio che collassa in se stesso diventando una sorta di tautologia, a mio parere sì, l’archivio può essere considerato un nuovo genere dell’arte. Decenni di conoscenze e competenze di archiviazione e catalogazione sono il punto di partenza per sperimentare nuovi approcci integrati e multidisciplinari di valorizzazione del patrimonio per raggiungere diversi e molteplici pubblici, anche favorendo nuove prospettive di archivistica partecipativa. L'archivio è stato adottato non solo come oggetto di ricerca, ma anche come mezzo per creare nuove visioni e ricostruzioni del mondo mediante la tecnica di assemblaggio o di sostituzione delle immagini. Questa operazione di diversione diventa così un rapporto formato da scoperte e appropriazioni, che fa del montaggio il principale strumento di azione dell'analisi culturale utilizzato negli archivi artistici. Sono proprio questi gli aspetti e i problemi che gli artisti devono affrontare scegliendo l'archivio come oggetto di ricerca e come archetipo formale ed espressivo. Si avvicinano a quest'ultimo considerandolo come agente attivo che dà forma sia all'identità personale che alla memoria collettiva e culturale: dispositivo processuale che negozia, mette in discussione e rafforza il potere sociale. Inoltre, modella e rimodella la memoria.
La mia proposta è quindi di ripensare l'archivio come metodo post-moderno in questa idea di "anarchivio" come fonte di ispirazione per la realizzazione di opere che sono sia visive che critiche attraverso pratiche di appropriazione che affrontano il caos della cultura globale dominante e generano processi artistici originali grazie all'archiviazione. A cura di Federica Arcoraci Ref: Assmann, Aleida. “Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale” (1999), trad.it. di S. Paparelli, il Mulino, Bologna 2002, p.382. Baldacci, Cristina. “Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea.” Johan & Levi editores, 2016.
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